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Di radical chic, torri d’avorio, Trump, vertiginosi polarismi e tutti contro gli -ismi.

Leggendo il Mittner (lʼautore di quellʼinfinita e appassionante storia della letteratura tedesca che tanto ho menzionato e probabilmente tanto ancora menzionerò) sono incappata in quella svolta del Novecento durante la quale, tra Germania e Austria (e non solo lì, ovviamente) andavano contrapponendosi sempre più due entità, o, meglio, la differenza che le separava, che rendeva sempre più impossibile una comunicazione tra di loro, andava allargandosi (lunghetta come frase iniziale, vero?): la (nobiltà) colta e lʼincolto (popolo).
Quando studi la storia della lingua italiana (e non solo), studi anche una cosa chiamata diastratia. Di questa, studi nello specifico una relazione: quella tra lʼorigine sociale dei parlanti (ricchi o poveri, riassumendo) e il tipo di lingua che parlano. Come parla una persona ricca? E una povera? Le domande-parametro sono queste. E sono domande che – si studia – hanno ormai poco senso. O dovrebbero averne poco. Perché oramai – in squisita teoria, e in teoria non solo in teoria – chiunque può accedere ai mezzi necessari per parlare un italiano corretto (e comprenderlo).
Mentre leggi il Mittner e ti ricordi la diastratia, però, incappi nel video di un qualche politicante (credi) statunitense di parte trumpiana che, con un sorriso di denti bianchi, denuncia come la politica degli Stati Uniti, per gli ultimi tot decenni, sia stata portata avanti avendo come must quello di non “offendere i sentimenti” (delle donne, dei gay, dei negri, degli islamici, etc…) anziché quello di “dire la verità”.
Ho pensato, dopo aver visto quel video, che il presupposto è ben strano. Il presupposto è che fino allʼaltro ieri, per motivi a noi non ben noti, non si volesse conoscere la verità. Ma questo è un presupposto secondario del vero presupposto, ancor più gustoso: Basta voler conoscere la verità per conoscerla. Che è quello che farebbero i trumpiani, a detta di Mr. Denti Bianchi. Decidono di parlare di fatti – anziché tessere discorsoni che non “offendano nessuno” – e in automatico sono in grado di farlo, ossia in automatico accedono alla verità.
Fenomenale, vero?
Poi ho visto un altro video, in spagnolo, e quindi con una comprensione limitata dello stesso: quel che era chiaro è che cʼera una qualche manifestazione di piazza con presenti degli spagnoli (di Spagna? Può darsi) che inneggiavano a Franco tendendo il braccio a moʼ di saluto fascista mentre urlavano “Duce!”, il tutto seguito da volti ripresi mentre pregavano – a seguire un breve discorso che conteneva la parola “Islam”. I volti erano in media non-proprio-giovani. Il mio primo indecoroso pensiero è stato: “Speriamo muoiano in fretta, e questo con loro.” Poi mi sono permessa una dissertazione interiore più lunga: “Gente che non ha mai visto una guerra che inneggia a un neo-nazifascismo militante, non avendo quindi un cazzo in comune con quelli che hanno costituito i primi nazi-fascismi.” Non che le motivazioni degli originali nazi-fascisti fossero dʼoro e sapienza, intendiamoci: ma, a posteriori, permettono di collegare le cose. Qui di collegato cʼè un nazi-fascismo la cui estetica potrebbe essere stata rodata in sessioni di giochi di ruolo dal vivo e parchi a tema e uno spirito da crociata che probabilmente ai tempi delle crociate non è mai esistito, ma che presenzia ben preciso in tanta filmografia popolare.
E, con “popolare”, torniamo allʼinizio. A Mittner e ai suoi nobili prusso-austriaci di inizio Novecento che proprio non digerivano lʼavanzare cieco (e in ciò folle, o viceversa) delle masse incolte. Generalizzavano, i nobili, forse un poʼ spaventati come mʼimmagino – diversamente ma similmente – spaventati i bianchi pro-Apartheid prima del crollo del regime, asserragliati in casa. Così, ma ideologicamente. Come quella Storia di un tedesco di Haffner che viene venduta come libro partigiano di resistenza al nazismo, ma che è in fondo la storia di un vecchio spirito nobil-ricco che, del nazismo, ha criticato i tratti più anti-elitari. Insomma, dubito che oggi Haffner sarebbe un umanista dedito a campagne per i pari diritti di tutti. Era colto, e in quanto tale aveva un ampio bagaglio da cui attingere per riflettere, e questo non è poco. Non è poco per nulla. Non lo è soprattutto se lo si paragona a quellʼignoranza tuttʼaltro che nuova, ma mai come oggi manifesta, che impera su quegli stessi social che se ne lamentano.
O sui giornali.
E qui torniamo a Trump.
A come, nel post-elezioni, ci si sia resi conto che chi aveva in mano i media non aveva la più pallida idea di quel che stava accadendo. E non lʼaveva perché non dialoga(va) con lʼelettorato di Trump. E la domanda, veramente, la vera domanda, è:
Siamo arrivati al punto in cui non cʼè più dialogo?
In cui si stanno creando due culture, una che si identifica con i poveri e che identifica lʼaltra con i ricchi (ma non è così semplice, ricordate la diastratia), lʼaltra che non conosce, semmai disconosce, la prima? E quante persone stanno in una credendo di stare nellʼaltra? E quante usano entrambe per poter sminuire coralmente nemici privati?
Ho (ri)cominciato a riflettere sulla trasversalità dei criteri dopo aver sentito una mia conoscenza “bianca, europea, di sicuro non povera, formata” fare generalizzazioni che in quanto a metodologia avrebbero potuto essere smontate da un bambino di sei anni (o da uno nella sacra fase dei “perché”, comunque, che non ricordo quando sia, ma che purtroppo finisce per molte persone, che poi rivestono uscite dʼodio con le vesti di un ragionamento – ma solo le vesti), generalizzazioni su (stupitevi) “gli islamici”, e questo un paio di settimane dopo aver avuto a cena un amico musulmano con cui ho parlato di gender e reificazioni e dellʼuso che si fa delle ideologie (religiose o meno) per sfruttare la paura e lʼodio. Ho pensato – nel modo di pensare meno decoroso – che lei era, tra i due, la retrograda pericolosa. Lei lo è, punto, in questa situazione. Eʼ il partire dal presupposto che basti una religione – o un qualsiasi altro criterio usato come descrittore affidabile a sproposito – a farci capire “chi usa di più il cervello” (permettetemi il lusso di un riassunto) il problema. Cioè, uno dei problemi. Assieme alla tendenza, che sempre più noto (e spero sia unʼillusione collettiva), di concepire solo due posizioni contrapposte: o con me o contro di me.
E io, intanto, leggo il Mittner. E, per quanto io abbia vissuto una lunga fase della mia adolescenza (e non solo) autosegregata in una torre dʼavorio, sentendomi (auto-appioppandomi, insomma) il ruolo della nobile di inizio Novecento di turno (Ah, beate-beote masse!), non lo sono. E, non essendolo, vedo quella posizione dallʼesterno. Vedo la mancanza di mezzi di quella crema culturale, la sua incapacità di comprendere i moti popolari (e borghesi). Vedo lʼassurdità – da una parte della barricata e dallʼaltra.
Ma, intanto, osservo il mondo attorno a me configurarsi in opposti, dar loro caratteristiche, e vedo – dallʼesterno – alcune mie caratteristiche individuali diventare parametri generali. Una volta mi auto-prendevo in giro dandomi della radical chic. Quel che intendevo fare, in realtà, e con non poca arroganza, era tacciare una certa maggioranza di esserlo: semplicemente, comodamente seduti a un computer, non sempre ci si rende conto di quanto alcune proprie pretese siano lussi. Chi le riconosce come lussi, invece, tende a parlare di tale iniquità – e viene etichettato come radical chic. O veniva, perlomeno.
Dove sono finiti i radical chic?
Eʼ da tanto che non vedo questa parola usata (nellʼunico modo in cui veniva usata: con disprezzo). In che categoria è finita? I buonisti? I filo-islamici? I sostenitori più o meno consapevoli dellʼ“impero delle banche”? Non sto chiedendo, ovviamente, dove siano finiti realmente – io, ad esempio, sono qui – ma in quale categoria siano stati ricollocati. Da che parte della barricata? Ma, visto che ci siamo, chiediamoci anche dove siano finiti. Tutti dalla stessa parte? Quanti tra loro si sono risvegliati anti-qualcosa? Anti-complotti, anti-islamici?
(E non ho ancora capito se i complottisti siano anche anti-islamici, se le due categorie siano contrapposte, o se siano trasversali. Sto capendo ben poco in generale, a dirla tutta. Ad esempio, i fondamentalisti cristiani odiano più gli omosessuali/bisessuali o gli islamici? Il Family Day del futuro accoglierà gli islamici conservatori? E i cristiani anti-islamici si alleeranno con gli omosessuali? O alcuni islamici indecisi tra progressismo e conservatorismo, al pari di certi cristiani, accetteranno lʼomosessualità per parlare di pari diritti?)
Quel che odio di questa situazione è che mi fa venire una voglia pazzesca – che mi tenta dolcemente, o che peccato sarebbe? – di rintanarmi di nuovo nella torre dʼavorio. Non per blaterare da un podio, stavolta, ma per assaporare un poʼ di silenzio. Leggere parole di gente morta e ascoltare quelle dei vivi che mi scelgo. Facebook è troppo una bolgia. Scrivere lì per ragionare è ormai come entrare al bar di paese e buttare un argomento sul tavolo: la similitudine vale per quanto riguarda le aspettative che si possono avere. Con la differenza – minuscola o enorme – che il fantomatico bar di paese, più mito che realtà, è un luogo in cui si ritrova chi non ha avuto, nella vita, modo di diventare un sapiente (e perciò va al bar, magari dopo una giornata in fabbrica, preferibilmente in una fabbrica ferma alla rivoluzione industriale). Ma la diastratia, la ricordate? Lʼindignazione cocente che porta ad armarsi, il prendere posizione fin da subito con lʼodio che il fanatico matura solo negli anni, lo scrivere con il tono di chi, per bontà divina (o equipollente), con il proprio solo intuito ha una saggezza che schiaccia tutti i ragionamenti altrui, tutte queste cose, insomma, non vengono da persone che non hanno potuto né studiare né hanno potuto, né possono, accedere a fonti di cultura. Vengono da persone laureate – così come si possono contare i (grandi) numeri di chi, auspicandosi nuovi nazi-fascismi militanti, non solo non ha mai visto una guerra, ma probabilmente hanno il cuore che va a mille al primo rumore di notte in casa.
(E faccio male a chiamarli nazi-fascismi. Non lo sono, oggi, non lo possono essere. Qualsiasi cosa uscirà dallʼoggi sarà una cosa nuova, inedita, che in comune con il passato avrà la tendenza di rifarsi a mitici passati a moʼ di consolazione e per auto-legittimarsi.)
E io taccio, spaventata sia dallʼidea di essere coinvolta in una bolgia di recriminazioni travestite da opinioni ben sostanziate (ah, maledetto ipse dixit, nemico nei secoli dei secoli), sia da quella di fare io stessa quel che trovo aberrante. Taccio, e poi, ogni tanto, rigurgito.

Indefinibilità.

In questi giorni in cui studio e lavoro s’intersecano e confondono e sovrappongono, a tratti, mentre faccio uscire dalla mia bocca strutture appena apprese per riservarle a unə cliente particolarmente bendispostə, ogni tanto una canzone dai lamentosi toni slavi attraversa il mio spazio-tempo.
Vorrei dare nome a quello che, in questi mesi, con tanto piacere quanta frequenza mi trovo ad ascoltare. Sono note che salgono dalla strada nel finesettimana, incontro in metro nella forma di una persona che le suona di mercoledì (o lunedì o giovedì – non c’è norma, non c’è schema visibile), passano per il computer e io dico:
«Si fermi tutto! E questo cos’è?».
Ma, alla fine della giornata – e quella che segue, e poi ancora in quella successiva, quando ancora mi ritrovo tra le orecchie simili melodie – non so che cosa sia. Non so come chiamare questa tendenza musicale che, dopo essere stata ascoltata una volta, sembra ricomparire, apposta, a ogni angolo. Insisto con il definirla slava, pur sapendo che tale termine è tanto vasto quanto, quindi, in qualche modo offensivo, ma è d’altro canto l’unico appiglio che ho. Per il resto, le canzoni che mi trovo a sentire si presentano con volti diversi: nostalgici, a volte, o invece ridanciani e deridenti come se mi passassero, vivi e noncuranti all’idea della morte, davanti in quel momento.
E, mentre lascio che scandiscano l’ennesima ora, li collego – arbitrarietà per arbitrarietà – alle pagine del Mittner che mi accompagnano in questi giorni di studio e lavoro.
Mittner è quello che ha scritto una Storia della letteratura tedesca più che colossale – ma non per questo sommaria, anzi. Adoro Mittner, creatura di altri tempi eppure distante dai suoi coevi. Doveva essere all’avanguardia quando ha cominciato a scrivere saggi – con quel suo tono ancora accademico nella tenuta, ma ben più vasto e omnicomprensivo dello sguardo che s’immagina negli occhi di un topo da biblioteca. E poi l’ironia, sottile, che non sminuisce la profonda passione con cui passa in rassegna tutti gli autori germanofoni che riesce a ficcare in quelle pagine scritte fittamente, con note ancor più fitte. Vi concentro lo sguardo e tutta l’attenzione mentre in metro, seduta o in piedi, lo leggo. Per tragitti brevi o lunghi. La mattina o la sera. A volte, a letto, sotto le coperte.
Mittner sta fungendo da specchio in cui riconoscermi, in questi giorni in cui ho così poco tempo per stare interiormente con me stessa.
Mittner sta fungendo da filo rosso con cui ritrovare i discorsi che lascio in sospeso.
Questa musica indefinibile, ad esempio. O l’indefinibilità in generale.

Qualche giorno fa, in negozio, un italiano in visita all’amica, di provenienza italiana e ora vivente a Berlino, mi ha chiesto a mento sollevato:
«Sai dirmi perché Berlino piace tanto?»
Per la varietà, di persone e quindi stimoli – che s’incarna, detto in un modo che possa risultare forse più tangibilmente riconoscibile e comprensibile, nel fatto che ognunə può andare in giro come gli/le pare e nessunə per ciò lə guarderà non dico male, ma neanche stranitə. Anzi. Ciò arricchisce la città. La crea. La vivifica. Ci si sente parte attiva di un processo in eterno divenire.
Ma non sono riuscita ad arrivare a dire tanto – le parole non hanno fatto in tempo a essere messe nella giusta forma, nel giusto ordine, e d’altro canto l’italiano già mi stava chiedendo se tutto questo essere diversi dagli altri non sia un’altra moda in sé.
E io, davanti a quest’altra domanda a mento alzato in precoce vittoria, mi sono sdoppiata.
Una parte di me ha capito. Ha capito tutto. Ha capito il riferimento all’essere “diversi dagli altri”, lo ha concretizzato in volti e caratteri e tendenze, e ha anche capito il fastidio in reazione a ciò, e come questo si concretizzi in certe altre persone, che discorsi faccia loro costruire, quali argomentazioni, quali vicoli ciechi, quali strade aperte a futuri sviluppi.
Una parte di me, invece, si è trovata in mare aperto senza più ricordarsi come si nuotasse. O, meglio, a nuotare senza ricordarsi razionalmente come si nuotasse, o così ha pensato, non realizzando che non l’ha mai appreso razionalmente. Eppure sa nuotare. E stava nuotando anche in quel momento.
Detto in altre parole:
Non ricordo più molto bene a che serva domandarsi se essere diversi dagli altri sia una moda in sé. Lo è? Può darsi. Ma, se lo fosse, qui a Berlino – come moda che esiste per farsi notare – avrebbe fallito.
La varietà umana, qui, mi fa pensare a quella delle piante, dei fiori e degli animali che trovo nella strada parallela a quella in cui vivo. A volte ci passo nella speranza di vedere uno dei conigli che vi abitano fare quale saltello di fianco a me. Accade a volte, solo a volte, ma poco conta. Tutte le altre posso osservare corvi e uccelli volare da un ramo all’altro, e le diverse forme e grandezze dei rami, le bacche che vi crescono, o le foglie che li riempiono, e quelle che – cadute dagli alberi – sfumano il cemento con gradazioni di giallo, e i fiori sbocciati e quelli nascosti, e – insomma – i diversi modi in cui gli abitanti decidono di far crescere il pezzo di verde che c’è davanti a ogni casa.
Non c’è niente di particolarmente esotico – o strambo, strano, diverso – nei singoli elementi, sembra. Se c’è – e certamente c’è – partecipa assieme a tutti gli altri a creare uno specifico tipo di paesaggio. Ci sono flore e faune mediterranee, flore e faune tropicali, e le flore e le faune delle specifiche città. Quelle di Berlino sono un groviglio di elementi che, altrove, sarebbero strambi, strani, diversi. Qui sono… come dire?… qui sono, tutto qui. E il lato positivo è che, oltre a poter essere contemplati nel loro insieme, nella loro impressione generale, si fanno sminuzzare con piacere per livelli e livelli, come frattali.
È strana Berlino, con il suo convivere di niqab e neonazisti, rampanti capitalisti e promotori della sostenibilità. Ma poi, se si zooma, risultano strani anche i singoli elementi. Un raffinato braccialetto d’argento sul polso dell’uomo che come capigliatura ha un unico, piatto, lunghissimo dreadlock; un cappello a muso di panda sulla testa della donna in completo elegante. E, se si zooma ancora, la situazione non va che complicandosi. L’uomo potrebbe essere un intellettuale di destra, la donna volontaria in un’associazione per i rifugiati.
Quando si cerca di tornare indietro – alla visione d’insieme – se ne scopre la vanità. Si (ri)scopre quanto sia vano cercare un unico e omogeneo filo rosso che colleghi tutte le parti che compongono un individuo. Berlino aiuta, in questo. Aiuta offrendo abbinamenti tanto improponibile quanto frequenti che rendono inutili le classificazioni. Quella lì sembra una punk anni ’80 mescolata con una rastafariana, e quello un hipster mescolato a una drag-queen, ma quello che cosa è…?
Come si può essere diversi quando si è immersi in un mondo di diversi? Diversi rispetto a chi? E a che pro etichettarsi, quando le etichette non aiutano più a dividere in categorie, essendosi le categorie mescolate tra loro senza pudore?

Se il cliente in negozio mi ha fatto tali domande a mento alto, e con pregustata vittoria, è perché di Berlino si parla troppo. Di troppa poca Berlino, e di questa troppo, e nel modo peggiore – ossia quello che si crede migliore.
La Germania non è la nuova America. Pensavo di essere io quella che la serbava con troppo amore nel cuore, al punto d’idolatrarla, ma (per fortuna) mi sono sbagliata (o forse, vivendoci, ho avuto ben poco tempo per adorare l’idolo). Ho visto troppe persone parlarne male con la stessa disillusione e rabbia con cui si parla di unə ex, colpevole, fondamentalmente, di non aver retto alle aspettative dopo essere statə messə alla prova delle nostre necessità. Tanta acredine non può che venire da troppo cieco entusiasmo. Ho chiara e stridente in testa l’intonazione vittoriosa di chi, in un discorso, riesce finalmente ad agguantare un argomento che dimostra che la Germania non è perfetta, e lo usa come se tale imperfezione potesse frantumarla tutta.
La Germania non è il Paese dei Balocchi. Cioè, può esserlo. Per breve tempo vi tratterà con guanti bianchi e con mille riguardi. Questa sarà l’impressione, se verrete qui da un’Italia che, nella nostra testa, non vi tratta come dovrebbe. Di fatto la Germania vi starà semplicemente trattando come reputa chiunque dovrebbe essere trattato – quel chiunque che, di contro, dovrebbe agire in un certo modo. E quel modo non è usare la Germania come fino al giorno prima si è usata la mamma: per farsi mantenere e stirare le camicie – ché, finché si può… Ma sto già ricorrendo a facili cliché per appellarmi a quelli che dovrebbero essere (stati) i miei connazionali. Questa è la cosa peggiore, sapete? Vedere, qui, delle profezie che si autorealizzano. Stereotipi che si disegnano da soli. Italiani che, quasi si stessero dimenticando cosa erano (e probabilmente è proprio così), ricorrono ai cliché cotti e pronti per attaccarsi a una qualche vaga identità italiana. Ed è comprensibile il sentirsi venire meno quello che si era. Si cambia ambiente, si cambiano parametri. Ci si scinde un po’, a volte – una parte ricorda, l’altra no. Ma non è poi così male. E’ solo straniante. Ma in un modo interessante. Ma sono di parte.
Quel che mi affligge è più che altro la distanza che viene a porsi tra me e le persone, a me care, che continuano a crescere e svilupparsi in un contesto diverso. Diverse coordinate, diversi orizzonti, diversi modi di interpretare le cose e prospettarsele. E, soprattutto, l’inidentificabile – come queste melodie slave che tornano e ritornano a cadenzare le mie giornate, provenendo da non so dove e non so dove andando, e chissà quanto resteranno, e intanto le colgo e accorpo a me.

Non c’è meno inquietudine, qui, né maggior senso. Quello è il mondo, no? Che è fatto così ovunque, se è fatto così nella propria testa.
Ma da qui mi sembra di poterlo osservare meglio – mentre, nel frattempo, vivo come in un’isola che, pur essendo al centro dell’Europa, vive in sé. Attinge da tutto, si fa attraversare da tutto, e forse proprio per questo non riesce a farsi assillare da nessuna delle specificità che la circondano. Come fai a parlare, sia male o bene, dell’Altro, quando l’Altro – sia il cattolico, lo hipster, il neonazista, il musulmano, l’italiano, l’omosessuale, il cinese, il capitalista – non solo è ovunque attorno a te, ma è proprio davanti a te mentre ti vende quello che compri tutti i giorni? Alla fine si parla di tutti e tutto come se nella stessa stanza ci fosse l’intero mondo ad ascoltare – perché non sai quale parte di quel mondo, in quel momento, effettivamente ci sia. E’ una specie di panopticon culturale che, anziché indurre al silenzio, spinge a trovare nuovi modi di parlare l’uno dell’altro senza né includere né escludere. Un po’ per buona creanza – questa è l’impressione iniziale – un po’ per convivenza – questo diventa il fatto poi – un po’ perché poi diventa insensato fare altrimenti – e questa è, credo, mera abitudine, per quanto sia un’abitudine da me adorata.

Ho pensato, oggi, a tutte le volte che ho sentito fare battute su omosessuali e islamici (argomentoni del passato e del presente), a cui ho reagito seriamente, per poi sentirmi dire che “era solo una battuta”. Ho pensato, con uno strano cuor leggero, che la risposta che segue è semplice, semplicissima, così semplice da essere diventata un tabù. Suona volgare come un “E tu sei unə coglionə – ma è una battuta, eh”. Perché se una battuta si può fare su una persona, allora si può fare su tutte. Ma non funziona così, vero? Le battute su certe categorie funzionano quando le categorie non sono presenti o, peggio, quando la loro presenza è una minoranza che non detiene granché potere.
(Ehy, vale anche per tutte le battute sugli uomini e sulle donne, su quelli del Nord e del Centro e del Sud, sugli avvocati e sui salumieri – su chiunque, ma proprio chiunque, perché quel che conta è il tono, e l’aspettarsi o il non aspettarsi che la categoria menzionata abbia il diritto e il potere di farti ingoiare quella battuta. E’ il segreto per cui non è la parola usata che conta, ma il presupposto e l’intenzione.)
Mi sento in un’isola perché qui, in una città con neonazisti e donne in niqab, alla fine della giornata sono meno stressata da questi immensi dettagli di quanto lo sarei – e sono stata – altrove. E’ un piccolo delizioso paradosso che mi tengo stretto stretto al petto, cullandolo e coccolandolo. Non rende la vita meno atroce né meno folle – è un paradosso, d’altro canto – ma mi fa sentire centrata. Più pronta a più cose, in un certo senso. Esiste una parola per questo?

(Ricordatevi sempre che questa è la mia Berlino, che coesiste assieme a tante altre, che probabilmente ne sono l’esatto opposto – ci sono Berlino fatte di faide irrisolvibili, Berlino tutta-natura e Berlino solo-cemento; Berlino in cui tutti si omologano e altre in cui nessuno parla veramente con gli altri; etc etc…)

Riluttante iconoclastia

Quando incontri un’iperrealtà la realtà, per un po’, risulta irreale.
(E ti dici e ridici, quasi compiaciuta, che ecco, è che di realtà ne esistono tante, incomparabili, e bla bla bla, come se esperirlo sulla tua soggettiva e scossa pelle potesse renderti più comprensibile, vicina, al prossimo – tu, realtà irreale.)
Ascolti gli Ulver perché sanno di quell’iperrealtà. Glielo hai detto, che non puoi temere di cambiare in un breve di lasso di tempo. Del futuro non si sa, e lo credi con tale fermezza da guardare con sospetto alle promesse. Certo, del futuro non si sa, ma ci sono cambiamenti interiori che procedono con la lentezza di una valanga vista da lontano. Ci sono cose che ti porti dietro da anni, decenni. Almeno un decennio, gli Ulver e quello che ti ricordano.
Ti ricordi che cosa ti ricordano?
La pace di un mondo svuotato di senso. Non del tutto, non ancora, e ci sono ancora fantasmi umani tra i grattacieli così infami che la natura non vuole saperne di riappropriarsene. Si è, lì, un passo dopo la decadenza. Quel momento di sospensione in cui il passato è già scomparso e il futuro non si fa intuire. Un presente così isolato da risucchiare ogni eco.
Te lo ricordi?
Gli Ulver non ti danno felicità, no: placano il tuo bisogno di nudità e silenzio. “Verità” è un termine che ti sei disabituata a usare. Rimangono solo quelle soggettive, di verità, e hanno ognuna l’ampiezza e la consistenza e l’irrinunciabilità di interi mondi.

Il fumo uccide, recita il pacchetto, e continua a stupirti e non stupirti e nulla poter fare quando le persone s’indignano se il fumo uccide.
Avresti voluto scrivere un intero pezzo per smontare una pubblicità – una a caso – e dimostrare che le pubblicità non mentono. Neanche di una virgola. E smettetela di indignarvi se il dentrifricio non sbianca, il balsamo non liscia, la barretta non vi fa dimagrire: non vi è mai stato detto che lo avrebbero fatto. E il fumo uccide, sì, ma non sapete quanto e come. Forse uccide meno della depressione, forse più della guerra. Il fumo uccide non vi dice nulla di utile per un ragionamento più complesso di una pubblicità.
Non è buffo che le pubblicità non mentano ma i giornali sì?

Poi ci sarebbe la faccenda dei pantaloni, che è tra l’imbarazzante e il peccaminoso.
(In quel tuo mondo in cui usi la parola “peccato” per riferirti alla reazione emotiva causata dall’averlo commesso, non concependo peccati in sé – e sentirti peccatrice è forse il peggior peccato.)
Hai lavato le lenzuola, il coprimaterasso, l’asciugamano, te stessa. Hai posposto i pantaloni, pensando che era solo un piccolo pezzo, e invece sono rimasti lì, più preziosi perché unici, soprattutto mentre la generica paranoia del dopo ti coglie senza darti direzione. E’ quando non sai bene che cosa temere e che cosa non temere, per che cosa patire e per che cosa no, e mentre non sai neanche se innescare subito lo stand-by o se, questa volta, approfittare di qualche momento di sfogo prima di renderti un po’ più psicopatica – mentre sei in questa condizione irreale, insomma, temi, poco, tutto e tutto. Ti guardi attorno con l’espressione vagamente ridicola (e con ciò tragicomica) della bestia braccata non sapendo da che parte devi temere l’arrivo di un pericolo. Ad esempio:
Cazzo, i pantaloni.
Ti sei ritrovata ad annusarli un paio di volte. “Ritrovata” perché, a posteriori (ma è sempre a posteriori), non ricordi di aver deciso di compiere i passaggi necessari per arrivare a quel punto. Non che sia un mistero, il perché tu sia finita con il naso tra la stoffa. Ce lo rimetteresti adesso. E al contempo lo temi fottutamente.

La cosa strana è che, sentendo nella sua voce al telefono il tuo stesso tono sospeso e accorto, ti sei sentita meglio. Niente a che fare con “mal comune, mezzo gaudio” o “allora c’è” (beh, forse la seconda un po’ sì – convivi con lo strisciante timore che l’Arcinemico te lo fotta con un burocratico balletto di abili mosse manipolatorie, che sia dentro o fuori di lui), ma qualcosa di più simile al “non sono pazza”. Dubbio frequente, quando si ama passare da una realtà all’altra, rendendole tutte irreali e iperreali al contempo.

Ti è venuto un tono strano, nelle ultime ventiquattr’ore, da cinico in vena di sputare sentenze. Per zittire il mondo e tutelarne la parte – di solito piccola, minuscola, nel caso del cinico – a cui tieni. Simile al tono scorbutico-accorto dei vecchi. E lo realizzi solo ora, che cos’è.
Horton.
Parla da dietro le quinte, tutt’altro che in primo piano. Lì è stato (con una tua certa gioia) ricacciato, lì rispettosamente (o per menefreghismo) rimane. Ma dice la sua, quando reputa che nessun altro sia in grado di cavarsela meglio.
Che cosa dire, d’altro canto?
Dopo tanto esorcizzare stucchevolezze e scene pietose, hai passato ore ad alternare discorsi totalitari, di quelli che ti fanno scivolare nella saccenza (è la tua debolezza del momento, a spingerti, mentre ti sussurra che a mali estremi…), ad affermazioni altisonanti, epiche, tragiche, comiche, non lo sai neanche tu, come se alzando abbastanza la voce tu potessi convincere il prossimo ad accettare la tua visione. (E sarebbe possibile, se tu non fossi tu e il tuo prossimo non fosse lui. Ma non vuoi che la accetti. Non vuoi che accetti proprio un cazzo, è questo il punto.)

Hai temuto, prima, che se non avessi sfogato almeno un po’ tutto ciò, non avresti avuto il coraggio di andare a letto. Non era un timore generico, ma l’aver intravisto un vecchio e ben conosciuto terrore: il non sopportare la presenza dinnanzi a te stessa. E non sai se sia la sofferenza o se sia la rabbia a causare ciò, perché – lo realizzi ora – forse in te le due cose non sono poi così tanto analiticamente distinte.
Ma è un po’ passato, ora – ossia abbastanza da poter guardare con sollievo a quell’ormai lontano terrore – e puoi dirti di essere felice di essere qui. Quantomeno sai che anni fa (e neanche troppi, forse) non avresti retto tutto questo – e non averlo saputo reggere ti avrebbe privato di ciò che di bello va a reggere. E ne vale la pena, ne vale fottutamente la pena – come gli hai detto – anche se ogni volta è più difficile, lo sai e lo sapevi. Continui ad accumulare debiti che una parte di te, in futuro, potrebbe trovarsi a doverti chiedere di pagare, e forse non potrai farlo, ma fa parte del pacchetto “ne vale la pena”. E non ne vale la pena in previsione di un momento futuro a questo, no: ne vale la pena anche ora, in quest’assurdo stato.

Ti sei fermata, in piedi davanti alla libreria, i pugni stretti sui pantaloni, e hai scorto un’ipotesi dal prezzo così alto che – come certe pareti di roccia nei tuoi ultimi sogni – il tuo sguardo non è riuscito ad abbracciarlo tutto.
(No, beh, diciamocelo: forse avresti potuto, ma non l’hai fatto e ti sei voltata altrove. Non adesso, ti sei detta in quel momento, che avrebbe dovuto essere dedicato proprio al adesso sì. Per questo, alla fine, sei qui? Perché vuoi fare la brava scolara e accontentare entrambe, l’esigenza di stand-by e quella di non gettare tutto nel fondo senza che sia prima elaborato?)
Fa una cosa strana, quell’assoggettante parete di roccia: ti desensibilizza ancor prima che siano arrivati i veri colpi. (Certamente con il tuo aiuto.) Ti senti il pensiero pulsante e ottuso come una parte del corpo colpita a lungo. Colpo, e colpo, e colpo. Usi la musica per aggirarti in quelle stesse stanze interiori che fino a qualche minuto fa ti avrebbero fatto serrare mascelle e pugni, e ora… quiete.

Un giorno una persona mi dirà che gli esseri umani sono delle tragicomiche creature capaci di creare meravigliosi congegni per risolvere un problema. Funzionano splendidamente, quei congegni, anche quando il problema è risolto e passato – e continuano e continuano a funzionare, macinando quel che passa, perché devono macinare per sopravvivere, e dopotutto li abbiamo creati noi. Quella persona mi dirà che è affascinante e stupido, questo fottersi da soli, costruirsi trappole su misura, incapaci di abbandonare quel che ci ha ben servito. Spero, quel giorno, di ricordarmi ancora di averlo pensato tempo prima. Lo scrivo, perché l’amnesia sia scongiurata il più possibile.

Ci saranno dei rigurgiti. Ci saranno? Il tempo futuro risulta sempre più arrogante.
Lascerò la porta aperta, stasera, e i pantaloni sulla libreria. Lungi da me diventare una feticista (e, poi, quale dolore più straziante di avere una parte di una persona sapendo di non poter più avere la persona? Sia mai che dovesse accadere), ma cerchiamo di non diventare bestie affamate di icone da distruggere.

Ecco, ad esempio, basta un messaggio per trovarsi di nuovo a stringere i denti.

Credo siano come le serate tra ubriachi. Se non lo si è entrambi, il discorso non funziona.
Esiste una sostanza, una metafora, un simbolo, che faccia l’esatto opposto dell’alcol?

Basta un messaggio e ritrovarsi tra le orecchie Hozier che parla di entusiasti roghi umani. La sublime e atroce bellezza del sacrificio. Non il momento in sé, no – non la folla che osserva estasiata l’annientamento di un proprio simile – ma il significato del sacrificio: fare a pezzi una cosa nella speranza che, da quel male, in futuro nasca un bene.
Detta così sembra un’antica superstizione: anticipa gli Dei cattivi e commetti il male prima di loro. Diventa il tuo Diavolo. Se Egli ti riconoscerà come suo sottoposto, non si sbarazzerà di te.
E’ o non è quello che faccio con il Dio Che Ride?
Ed eccolo, il primo spuntone dell’altissima parete di roccia: il timore di trovarsi davanti a un cataclisma così ampio da non riuscire più a perdonare. A ridere. Con Dio. Ma non riesco a liquidare questo mio attaccamento come vanità umana. Non riesco a farlo senza scomodare Horton e il suo vuoto, che non è spazio per il futuro ma tomba di ogni presente.

Non riesco neanche a concludere degnamente questo pezzo, non sapendo a che punto, e di che cosa, sono.

Di lussi, comodità & vanità.

Il Boss, come personaggio, non era per niente male.

 

L’ho realizzato stamattina svegliandomi da sogni che mal ricordo, quelli che il cervello e l’intestino usano per riorganizzare i rimuginamenti degli ultimi giorni. Il mio odio per l’Arcinemico, ad esempio, e ciò che rappresenta nella mia testa di scettica perenne: il laido potere di chi usa gli ideali come cappio. Non troppo stretto, o soffochi. Non troppo largo, o non c’è gusto. Deve circondare bene il collo, in quel modo che fa sentire sulla soglia: si oscilla tra il sapersi in mani sicure – così sicure che ci tengono per il collo come una gatta con i cuccioli – e il sapere che quelle mani possono essere letali. Chissà se il segreto dell’asfissia autoerotica ha qualcosa a che fare con tutto ciò.
E’ per il rigurgito di bile nei confronti dell’Arcinemico che ho, finalmente, reagito dinnanzi ai titillamenti di A. Non per lei, ma perché in questi giorni l’argomento “potere e tutto ciò che ne consegue” torna e ritorna come un fantasma insoddisfatto. E rialzati, cadavere, per l’ennesima volta. Ti sogno anche, cadavere, che non riesco ad abbattere neanche mozzandoti la testa. L’ho fatto con l’unica eleganza che conosco: con un taglio il più veloce e netto possibile. Perché tu smettessi di esistere e basta, senza essere – prima della tua fine – il depositario dei miei sfoghi. Perché sarebbe inelegante. Come ogni retorica dominio-sottomissione palesata. Come ogni manichino danzante che, spogliato, rivela sulla fronte la scritta: bisogno.
Non avrei dovuto reagire ad A. Non in quel momento, non in quel modo. Non per ciò che rimane ai posteri, ma per ciò che rimane in me: una striatura dissonante, morbosa, irrisolta. Sono tutt’altro che risolta.
Ci penso parlando con VB di gerarchie a letto. Del mio timore, sotto le lenzuola con qualcuno che conosco poco, di dar voce a una parte troppo prevaricatrice. Il timore di essere fraintesi. Il timore di intimorire, spaventare, far chiudere. Il timore, ancora peggiore, ci causare l’esatto opposto di ciò, e di causarlo seriamente. Di essere presa sul serio. Il sesso è decisamente depositario di troppe cose. Sputi una volta in faccia a una persona gemente e questa potrebbe aspettarsi di ricevere sputi a ogni ora del giorno, in ogni situazione. Il timore che una nostra singola azione possa essere presa come riassunto del nostro multiforme essere, che verrebbe così ridotto a una maschera bidimensionale.
Ci penso parlando con VB perché mi guarda scettica e mi dice che lo faccio. Instaurare gerarchie, intende. Controbatto ricordandole quanto io sappia essere passiva, frivola e svenevole con lei. Di quanto mi piaccia esserlo. Controbatte dicendomi che so, mentre mi pongo in quel modo, che il prossimo sa che in qualsiasi momento posso tornare a essere la despota di cui sopra. Ristabilire le gerarchie. Stai buono e non rompere i coglioni, insomma. E ha ragione. Non so in che percentuale e quanto a fondo, ma ha ragione.
Rifletto sul compromesso tra comodità e creatività. Tra lo starsene comodi nel proprio posto in gerarchia – preferibilmente a uno scalino alto abbastanza perché nessuno possa romperci i coglioni – e il buttarsi nel fiume, dove tutto si mescola e rimescola, e chiunque può colpirci e chiunque possiamo colpire, ma dove l’acqua non ristagna. L’acqua che ristagna è uno spreco. Vanitas.

 

E il Boss, questa mattina al risveglio, mi si è rivelato nel suo essere una parabola.
Il Boss, personaggio auto-creatosi per creare un sistema basato sul predominio, e di questo essere a capo. Il sopra del sopra del sopra. E da lì sopra, dove neanche un drago riuscirebbe a giungere, darsi a quello che tanto apprezza: la cedevolezza massima. Una cedevolezza così palese che, gettata nel fiume, lo farebbe finire schiacciato dall’intera gerarchia in mezzo secondo. Ma, standosene lì sopra, sull’ultimo immoto scalino, chi mai potrà cercare di fargli pagare il suo amore per la cedevolezza?
Il Boss, ai tempi, aveva messo in crisi la mia idea di potere. Foucault non era ancora arrivato a suggerirmi che il potere è un fluido che facciamo scorrere a ogni scelta e non scelta, e non una statica piramide che s’impone dall’alto in basso. Il potere, ai miei occhi assetati di violenza sociale, aveva la forma di un corpo che s’impone in continuazione, in continuazione palese la propria forza, in continuazione si dimostra e autodimostra tale. Ma, dinnanzi a questo Boss così molle e poco interessato a mostrare più dello stretto necessario per stare al vertice, la mia epica visione del potere era traballata. Alla cima della mia piramide, eccolo: un bambino viziato che gode ridendo mentre il mondo – un mondo piccolo, controllato, non realmente minaccioso – gli si schianta addosso. Mi fa venire in mente l’immagine della persona più ricca del mondo in infradito con macchie di unto sulla canottiera sporca. A che serve lo status, quando si ha già quello che permette di ottenere? Che si voglia divenire ricchi o beati, poco cambia.

 

Il Boss indossava quasi perennemente una maschera. Difficile puntare il dito quando non si ha un volto da riconoscere. Il Boss indossava quasi perennemente una maschera. Le uniche volte in cui la toglieva – quando, ossia, nessuno poteva vederlo – sotto c’era il volto di Torchia.

 

Horton, invece, ha ripiazzato il culo sul divano. Un divano ipotetico, questa volta, perché il mio non è abbastanza vecchio e abbandonato per essere il suo. Il divano che è comodo e ristagna. Ci hai scolpito la forma delle tue chiappe e ormai non lo senti neanche più. Non sentire è comodo. Quando poi, per imparare a non sentire, hai dato più d’un pezzetto d’anima, può diventare persino sacro. Immoto e granitico come un idolo atterrente. E intanto rimane comodo. Il suo vantaggio è il suo svantaggio: per sentire piacere, poi, ti tocca sbattere forte. Camminare sul dolore e sulla fatica, proprie e altrui, e spingere più forte per arrivare all’orgasmo.
Dal suo comodo divano su cui le blatte gli fanno festa, Horton mi sussurra cinismi scazzato. Cane mangia cane, mangia o sarai mangiato. Una volta mi suonavano fatali, adolescenzialmente simili a un: E’ così, non vedi? Non te ne vuoi accorgere? Non lo vuoi ammettere? Ma l’adolescenza è finita da un pezzo. L’adolescente che urla incazzata cinismo pretendendo che esso sia la verità rivela l’esigenza di una qualche certezza, nella vita. Che tutto sia un cane mangia cane, ad esempio. No, adesso Horton mi suona comodo e basta. Mangia o sarai mangiato, così è più facile, meno fatica, solo quella per mettere in atto quelle due o tre stronzate necessarie a tutelare il tuo spazio vitale. Il mondo poi, mi dice, è pieno di gente a cui la libertà pesa. Fai loro un favore. No, non è sarcasmo: faglielo veramente. Non è detto che siano tutti così, ma perché incaponirsi e trattare da gatti i cani? Non sarà arroganza, quella che ti spinge? Non è arroganza quella che ti spinge a imporre il tuo amore per la fluidità? E non cogli il paradosso? Imporre il tuo amore per la fluidità? Castigare la retorica dominio-sottomissione? Non ne esci, non ne puoi uscire. Tieni al tuo spazio vitale e ti piace stare comoda. Il tuo fluido egualitarismo è il lusso di chi non vede il proprio spazio vitale minacciato. Lo sai, vero?

Weltschmerz & l’età dell’innocenza

Tutto è cominciato – ed eccomi a ripeterlo di nuovo, rimasticando lo stesso boccone non del tutto assimilato – quando, nella tarda adolescenza, lessi un risibile saggio sulla storia contemporanea. Potrei dirvi il titolo, ma poco conta. Conta che, in così poche pagine, quel saggio avesse l’ardire di riassumere – udite udite – la storia contemporanea. E ce l’ha fatta, da un certo punto di vista.
Fu allora che scoprii qualche fatto essenziale, scontato e ciò nonostante atterrente. Da quanto poco tempo fosse finito il colonialismo, ad esempio, o la condizione delle aventi vagina nella maggior parte degli stati esistenti. Quel piccolo libro che poco poteva dire mi fece, con qualche numero e qualche commento, intuire l’immensità del restante mondo. Fece una cosa minuscola ed enorme: mi impedì, da quel momento in poi, di pensare alla mia normalità come a La Normalità.
Poi – non so quanto tempo dopo – inciampai in un termine che avrei potuto usare, retrospettivamente, per spiegare quel che provai: Weltschmerz, il “male del mondo”. Anzi, a esser precisi trovai una parola più lunga, che forse era – ricostruisco retrospettivamente – Weltschmerzgefühl, il “sentire il male del mondo”. Quel “male” non è sinonimo di “nemico”, ma qualcosa di più sottile ed espanso. Lo chiamerei “prezzo”, il prezzo da pagare per il bene – ma è difficile costruire discorsi sulla parola “male” quando, come me, non si ha un “male” e un “bene” assoluti, no?
Ma allora mi stavo costruendo come idealista. Se un male c’è, mi dissi, quale esso sia, deve esserci una soluzione, un’azione da compiere per evitarlo, o perlomeno ridurlo. Guardavo alle cosiddette “ingiustizie” nel mondo e m’indignavo, bruciavo dentro, sentivo l’impotenza rodermi gli intestini.
E poi…?
E poi ho continuato a fare quel che faccio sempre: ho analizzato, relativizzato, e al contempo compatito. Mi sono immedesimata nel male e nel bene, scoprendo che quel che percepivo non era poi così differente, di sicuro non abbastanza da renderli distinguibili. Ed essi sono caduti. Caduto il male, cade il bene. Caduto il bene, cade il male. Resta la necessità del momento, e la sua rilettura a posteriori.
Non sto dicendo che io, similmente a molti idealisti divenuti cinici, abbia allora “smesso di combattere” perché tanto alla fine “il male vince sempre”. Quel che ho fatto allora decadere non è la lotta al male, ma il concetto di male stesso. Badate alle sottigliezze, perché sanno fottervi con arte. E badando alle sottigliezze, prestatemi ancora un po’ di iper-attenzione: quel che ho fatto decadere è il concetto di male assoluto, universale, uguale per tutti, non il male soggettivo e soggettivamente esperito, che non abbisogna di rifarsi a concetti universali per manifestarsi come un assoluto nel momento in cui lo si percepisce.
Proprio perché il male assoluto è decaduto ma quello soggettivo è rimasto, non sminuito nella propria potenza, che il Weltschmerz è rimasto in me. E’ rimasto decapitato, ossia senza una testa a cui addossare colpe. E’ divenuto un corpo immenso e ovunque pulsante, e io una delle sue infinite propaggini. Tagliati la testa, rinuncia all’ego, e immergiti nel tutto. C’è bene e male, lì. Se ti ci immergi a occhi sbarrati, li troverai pulsanti in te. Sei il bene altrui, il male altrui. E’ la minuscola onnipotenza dell’essere umano. Uno non è meglio dell’altro, perché uno non esiste senza l’altro. Che tu compia il bene o che tu compia il male, sarai ugualmente responsabile – in bene e in male. Responsabile, non colpevole. Su certe sottigliezze vengono costruite religioni centenarie.

Dovrei, vorrei, trovare un modo di esprimere tutto ciò a I in modo univoco, senza rischio che non lo comprenda appieno. Gli dico: Spoglia l’atto dalla colpa, è solo un atto. Gli direi: Non perdere tempo con i significati aggiunti a posteriori: rinuncia alla colpa. Se riuscissi a esprimerglielo saprei perlomeno che sa che non posso giudicare. Non che non lo giudico, ma che non posso strutturalmente farlo.
Vorrei esprimerglielo di persona. Ripeterglielo, magari, per il gusto e il lusso di perdere tempo. Spoglia l’atto dalla colpa, è solo un atto. Se potessi farlo questo sordo mal di testa scomparirebbe. L’esigenza di sfogare smetterebbe di tartassarmi dall’interno. Sorriderei stanca, spossatezza post-dolore, e riempirei il tempo di cose futili. Domande su inezie. L’equivalente involuto di “Qual è il tuo gusto di gelato preferito?” Lo farei mettere in piedi e giocherei come una bambina cercando di colpirlo e sapendo di poterlo fare (almeno razionalmente), il tutto per poter scoprire i mille modi in cui lo eviterebbe. A ognuno la propria arte. A lui la mia gratitudine perché mi permette di giocare con i risultati della sua. Il lusso di non dare peso alle cose. Proiettili usati per costruire giardini zen. Senza pulirli prima, però. Cade il senso, cade il retaggio. Senza malizia, il male e il bene si riducono a quel che sono: attimi esperiti nel presente.

Mi abituerò a certi pulsanti momenti d’assenza.
Me la sono cavata bene, finora, ad attuare lo stand-by. Se la persona c’è, ne gioisci. Se la persona non c’è, non puoi né gioirne né soffrirne.
Si rassicuri I: me la sto cavando bene anche adesso. Come al solito, su questo blog finisce il peggio: se è finito qui significa che è sfogato, andato, passato. Concentro il tempo in attimi per presentificare lo sfogabile, quasi strategicamente. E’ come leggere l’unica frase volgare di un manualetto di bon ton: viene nominata per essere esclusa.

Cerbero

Ascolto un album intitolato Winter and the Broken Angel, album il cui titolo era scomparso dalla mia memoria. Per anni. Nonostante, all’epoca, esso avesse un’incredibile capacità evocativa a ogni, ripetuto, ascolto.

 

Ho una mancanza di memoria degna di nota. C’è chi ha palazzi della memoria, con ricordi ordinatamente collocati in stanze, angoli, gerarchie di importanza, senso e colore, categorizzazioni che si fanno simbolo e con ciò riescono a dare un senso.
Nel mio palazzo di senso ce n’è poco. E non è neanche un palazzo. Lo è, ma solo per mancanza di termini alternativi. Lo è, ma si estende in orizzontale sconfinatamente anziché avere un sopra e un sotto. Non ho cantine, ma profondità che sono tali per la loro lontananza dall’entrata. E la luce viene tutta da lì: dall’entrata. Mano a mano che ci si addentra, mano a mano che le stanze si fanno più vuote e polverose, la luce viene meno. Scompaiono le persone, appaiono le presenze. Scompaiono gli elementi che posso controllare – sono viziata dal farlo, io sognatrice perennemente lucida – appaiono quelli che agiscono fregandosene dei miei ammonimenti, del mio canalizzare la volontà per plasmare la sfera onirica, del mio sminuirli. Ridono. Piccole manifestazioni del Dio Che Ride.
In fondo – dopo le stanze illuminate e calde e vissute; dopo quelle più risposte, meno battute; dopo quelle che somigliano a soffitte, per polvere e abbandono, o a fontane da cui non sgorga acqua dall’inizio dei tempi; dopo gli antri in cui l’inconscio si cela per comparire all’improvviso e destabilizzarmi – dopo tutto questo, l’intero palazzo converge in una porta. Un singola, poco degna di nota, porta di legno.
Lì dietro c’è il Cane.
Lì dietro, nel fondo di quel luogo che non ho mai esplorato abbastanza, il Cane si alza e scatta nel momento stesso in cui apro la porta e corre verso di me.
Il Cane non è cattivo: è idrofobo. Se fosse cattivo lo potrei relativizzare, circuire, risolvere. Ma il cane scatta sbavando perché è l’unica cosa che sa fare quando si sente invaso – e quello è il suo territorio. Qui, dove le stanze sono quasi del tutto buie e spoglie, o così si fanno immaginare, il Cane è l’unica presenza immediatamente tangibile. E io mi sbrigo, sapendo che il mio tempo è contato: quello che mi rimane prima che il Cane giunga. Quando mi avrà raggiunto il sogno finirà. E allora cerco, mi addentro, veloce per non farmi fermare da quei fantasmi che vogliono ridurmi all’impotenza, quell’impotenza che mi annichilisce. O mi spaventano nell’unico modo in cui possono farlo: mostrandomi le immagini che sono riposte a fondo, molto a fondo, maschere che uniscono su di sé significati di per sé innocui, ma che accoppiati risvegliano il potenziale distruttivo del paradosso.
O rendermi impotente o farmi impazzire – che cambia?

 

Ho pensato a lungo che il Cane non fosse altro che quella Bestia nell’Umano da tanti citata. Ma no, il Cane è più puro. Il Cane non ha limiti, né quindi capacità di costruire architetture per travalicarli. Il Cane è, punto, e perciò irrisolvibile. E’ un tassello basilare del sistema binario che tutto compone – che tutto ciò che è concepibile dall’essere umano compone, perlomeno. E’ al di là del bene e del male. Non posso avercela con il Cane. Anche perché il Cane è una parte di me che ne tutela un’altra.

 

La maggior parte delle volte che sento parlare di Bestia Umana le bestie c’entrano ben poco. La crudeltà, che alcuni definiscono tutta umana, ha come prerogativa la capacità di astrarsi e costruire castelli di giustificazioni e manipolazioni e mistificazioni. In ciò offende l’umano: nella sua capacità di celare la verità all’umano – quale sia questa verità, e che sia una sola o sia tante.
Non odio il Cane. Non posso odiarlo. La sua sincerità è troppo assoluta.

 

Queste lezioni di Business English mi stanno salvando dalla malinconia che ha deciso di ammantare questo periodo. Se n’è approfittata di una serie di fatti, ma i fatti non parlano da soli: li ha usati per dire la sua, per imporsi come le nuvole, non potendo eliminare il sole, lo coprono.
E’ una sensazione nuova, per la sottoscritta. Sono troppo abituata a dover gestire i maremoti e le tempeste interiori per poter concepire che l’esterno tuoni e urli mentre io sono pacata. Pacatissima, considerando il considerabile. Conoscendo me – quella Me che potrei dire vecchia, se certe cose si potessero lasciare nel passato; ma si possono solo ricacciare a fondo, vicino al Cane – mi sarei aspettata che, dinnanzi a simili avvenimenti esterni, avrei reagito in un modo o nell’altro: o essendone sconvolta, se questi avvenimenti fossero riusciti a risvegliare quella parte sopita, o essendone placidamente indifferente – quell’indifferenza che un po’ mi spaventa.
E invece, per una volta, mi trovo placida su un battello ebbro. Mi domando se sia un’evoluzione o un’involuzione – sempre che si voglia riconoscere differenza tra le due cose. Mi domando cosa ci sia oltre le coltri. Mi domando se io non stia postponendo, e con ciò incancrenendo un qualcosa – un qualcosa che non so vedere, afferrare, definire, e che deve risiedere nel territorio del Cane.
E’ la mancanza di paura a stupirmi. Ci sono poche cose che temo di più. La paura con la sua capacità di scardinare e gettare tra onde per cui non mi sono allenata a nuotare – e a trattenere il fiato, soprattutto. A volte è solo questione di saper trattenere il fiato al momento giusto – perché non vincerai sull’onda se non facendoti trascinare, sott’acqua con la corrente per poi riemergere e respirare nuovamente. Il panico ammazza. Letteralmente.
E così, non sentendo paura della paura in questo momento, provo paura. Qualsiasi cosa io faccia, essa si ripresenta in altra forma. Se ne frega dei miei ammonimenti come i fantasmi del mio palazzo, il cui unico potere è quello di saper apparire come e quando vogliono. Non sanno far altro. Non serve che sappiano far altro. Per minacciarmi basta quello – con gesti che sono al contempo minacce e la loro realizzazione.

Armonie, disarmonie, utopie, distopie – e poi il mondo.

Stavo finendo di scrivere una trama – una cosa che non faccio mai, di mio, ma questa volta mi tocca – aspettando più o meno consciamente che giungesse quel momento serale in cui avrei fatto pausa chiacchierando con O. Una scusa vale l’altra, per fare pausa, e O è un’ottima scusa. Ma O stasera, e per qualche giorno, non ci sarà, e io penso.
Penso a quanto sia apparentemente paradossale che due individui come noi, così tenacemente impegnati a rassicurarci l’un l’altro circa il fatto che “domani potrei sparire” (sì, creature, è una rassicurazione), negli ultimi tempi si siano sentiti così di frequente. E non per cinque minuti a volta. Ci sono tanti motivi per cui il mio dio è il Dio Che Ride.
Ci guardo dall’esterno e mi facciamo tenerezza. Ho dovuto riflettere, la prima volta che mi sono trovata a dirlo, per capire come costruire quel “mi facciamo”. “Noi facciamo tenerezza a me”. Se ho dovuto pensarci è perché evidentemente non incappo in tale costruzione di frequente. Un “noi” che agisce su un “me”. Ma comunque. Mi facciamo tenerezza in quel modo, per niente denigratorio, che mi permette di guardarmi con un sorriso.
Ma comunque.
… Comunque, intanto, scrivo. E scriverò.
Ho scritto tanti racconti, sfiorando la nausea. Mi sono ributtata per un attimo sulla fantascienza non a tema, per ritrovare un po’ me stessa – una delle tante, ovviamente. Forse, semplicemente, quella che si dibatteva di più.
Ci sono poi un paio di progetti a quattro mani che, più che essere un revival di questa mia vecchia passione, sono sfide aperte. Mi serve. Mi serve tornare bambina, e dell’infante avere la capacità di assorbire dal mondo, che implica la capacità di prescindere da sé.
Leggo, intanto. Un po’ di fiction lì, tante discussioni meta-letterarie lì. Mi aggiorno e confronto. Sono una parassita, che s’infila in ogni sorta di discussione per ascoltare Weltanschauungen altrui al fine di capire cosa sia per me il “genio”. Forse il termine non è neanche questo. Ma non è neanche “talento”. “Genie” è un termine ideale – strano, vero, che un termine per me ideale sia mediamente sconosciuto? Lo Genie di Goethe. Quello spirito ispiratore. Giochi di parole per cercare un termine che forse non esiste. E la cerco, la definizione di questo Genie, perché serve a me. Devo disegnare un sentiero distribuendo sassi e mi serve una direzione. Un simbolo per il mio rituale.
Ascolto Cacciapaglia e mi viene in mente Maurensig. Maurensig. Quando penso a lui a distanza mi viene in mente un borghese intimista che ha toccato con le dita sensazioni non previste dalla culla natia. Chissà chi è in realtà – ma ora non importa. Mi serve capire quanto io possa essere quella cosa, quella cosa che permette a Maurensig di scrivere come scrive. Amo la sua scrittura con riserve. Ha in sé quell’eleganza delicata e rara che ho trovato in, tra gli altri, Yourcenar. Quell’eleganza che mi manca. Quel saper mostrare con armonia un piatto composto di disarmonie. Quel saper dare un senso e una continuità, su tutti i livelli – prosa, ritmo, trama, esistenza. Un’armonia che adoro, ma che non basta. Un’armonia che preclude le note stonate del Creato, a cui tanto tengo.
E penso allora a Genet e a Palahniuk, accomunati da uno squilibrio. Di prosa, di ritmo, di trama, di esistenza. Ed è tale squilibrio che permette loro di toccare apici e abissi che l’eleganza di un Maurensig non contempla. Come se l’armonia di Maurensig, per rimanere tale, dovesse rientrare in due ottave centrali. Voglio il sopra e il sotto. Voglio Genet e Palahniuk.
Addio all’armonia, e rimangono gli opposti: una quiete selvaggia e un caos artificioso.
L’asettica tribalità degli Ulver e il Barocco.
Una landa tedesca dopo il passaggio di un esercito e, a corte, poeti che accatastano rime sempre più minuziose. In mezzo, la Guerra dei Trent’Anni.
Iper-lucidi appartamenti minimali da una parte e – oltre le finestre a prova di graffio, brutture e morte – cartelloni pubblicitari con una tale abbondanza di dettagli da renderli più veri del vero. In mezzo, il resto del mondo.

Il duro&puro e altre vanitas

Siamo in piena Controriforma.
Me lo dicono le persone che fotografano quello che non mangeranno, Vanitas così palesi che non le avevo riconosciute.
Me lo dice la mia – e non solo mia – sete di quella verità sottostante a tutto questo barocco caos.
Chef Rubio, nel televisore acceso davanti a me, mette in scena un paradosso: dipingere con pennelli sottilissimi la grezzezza del duro&puro. Dovrebbe essere tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle optando per una rappresentazione distorta della realtà – tutti quei corpi perfetti, troppo perfetti, e quelle vite perfette, troppo perfette. Dovrebbe essere il reale, il vero cibo, ma non ne siamo capaci. Siamo capaci solo di mettere in scena un cibo troppo vero, più vero del reale.

Nelle orecchie: Blood Brothers degli Iron Maiden. Vecchia musica, concetti che cercano di essere universali.
Eppure, quando si tratta di scegliere una canzone che dica qualcosa a una persona che lì in mezzo, in qualche modo, c’è stato, Blood Brothers diventa un po’ vanitas. Puzza di quanto gli Iron avrebbero voluto vivere in quella distopia, e mi fa venire in mente delle perle in un porcile. Non le perle date ai porci, no, ma delle perle che crediamo nascere e crescere solo nel fango più scuro e melmoso. E’ la retorica del “Il genuino, ciò che conta, nasce e cresce solo nella miseria” – che sia la miseria di uno stomaco, di una mente, di una vita – o tutto assieme.
Il problema è che ormai, per rendere quel duro&puro, necessitiamo di quegli artifici che in teoria rinneghiamo. Necessitiamo di ottime telecamere per primi piani iper-nitidi. Necessitiamo di un uomo che sappia mettere in scena un cliché di se stesso. Costruire il vero accumulando finzione – e forse funziona, chi lo sa?

Adoravo Dream of Mirrors degli Iron perché mi permetteva di esplodere.
A canzone partita, attendevo quei pochi secondi – mi concentravo, incanalavo il fiato, mettevo assieme quelle poche nozioni acquisite sul “tirare fuori la voce, e che sia di diaframma” – e poi potevo esplodere.
Potrei riportarvi le prime righe del testo, ma sarebbe finzione: non me ne fregava niente del testo. Ad ascoltarle ora, ora che l’inglese lo capisco, mi dico che non c’era bisogno di tutta quell’epicità. Mi dico, come faccio nella maggior parte dei casi, che Dickinson avrebbe potuto limitarsi a urlare. Nessun fingere di avere qualcosa di ben definito da dire. Nessuna maschera. Urla e basta.

Potete leggere quel che la persona dietro a Chef Rubio scrive, se volete. La sua fiction. E’ in Rete.
Vi consiglio di farlo mentre Chef Rubio s’immedesima nel personaggio nel televisore acceso davanti a voi. Guardatelo per qualche secondo, leggete qualche riga, guardatelo per qualche secondo, leggete qualche riga. Lasciate che le due persone si fondano l’una nell’altra senza annullarsi e intuite il potenziale dell’essere umano, e ditemi: non è magnifico?
Anche le maschere hanno una loro, paradossale, controintuitiva, funzione.

Ricercatrice o lobbista?

Non ho mai sopportato le persone che blaterano sognanti a proposito di una doppia personalità – diavolo e angelo, santa e puttana, affidabile affabile manager di giorno e Batman di notte – soprattutto quando tali rivelazioni vengono condite con un tono di finta fatalità.
Non ho mai sopportato neanche l’incoerenza – se non quella sfacciata e irriverente, che è un trasgressivo e sornione “who cares?”.
Quindi deve essere per amor del paradosso che mi trovo a riflettere sul nascere di una mia potenziale doppia personalità.
Niente Dr Jekyll e Mr Hide – troppo esteticamente soddisfacente. La doppiezza che mi trovo a contemplare non ha l’eleganza di un’idea platonica. Ha più il retrogusto insoddisfatto di una freddura post-moderna.
Insomma, senza prolungare ulteriormente questo inutile prologo…
Preferirei fare la ricercatrice o la lobbista?
Non ho sette anni, e quindi la domanda va presa con le pinze – ossia simbolicamente. Non conto su una puntuale esclusività reciproca – se non sarà l’una, sarò l’altra. Diciamo che sono tendenze. Diciamo: preferisco speak truth to the power, che è poi la crociata romanticizzata dei ricercatori, o vendermi a una causa a caso tanto per il gusto di vendersi del tutto, da capo a piedi, emancipandosi dalle crociate etiche?
Non mi porrei la domanda, credo, se il mondo accademico non fosse quel che è, ossia una cricca autocompiaciuta che si logora il cervello su dilemmi che non interessano a nessuno (non in quella forma, almeno), immersa nella versione addomesticata (quindi tendenzialmente ipocrita) della legge della giungla. Non tutti, eh. Alcuni sarebbero da incoronare come profeti della post-contemporaneità. Amo, come al solito, i cinici della situazione. Vorrei essere la cinica della situazione – vorrei essere l’equivalente accademico di un vecchiaccio peloso che si tuffa con gioia in una piscina di bambini beati e beoti. Sarebbe molto epico. Non credo riuscirò mai a prescindere del tutto dell’epico.
Ma c’è una certa epicità anche nella posizione della lobbista. Sarebbe molto più epico fare la lobbista. Non per amor della trasgressione della legge morale o cazzate del genere, ma per uno strano assoluto senso etico. Insomma, immaginate che l’avvocato del diavolo non sia un essere corrotto ma essenzialmente un applicatore puntuale del principio per cui chiunque, e qualsiasi causa, ha diritto di essere ascoltato/a. E’, in fondo, quello che in teoria dicono i buoni valori della nostra epoca: che siamo tutti uguali e che i cattivissimi in fondo sono dei buoni disillusi. Non credo a una tale stronzata, ma credo nell’equivalenza delle persone e dei valori su un piano assoluto. Se il piano è assoluto, e non è quindi tagliato da criteri, come può stabilirsi una gerarchia? Insomma, perché il conforto tratto dall’aiutare bambini denutriti dovrebbe essere migliore di quello tratto dall’indossare un diamante? Non si tratta sempre, in ultima analisi, di conforto?
Quell'”in ultima analisi” poggia su un mosaico di assunti scalciati via. Scalcio via l’assunto tutto occidentale che proclama i diritti umani, la sacralità della vita, la nobiltà della ragione e dei sentimenti, la libertà come valore e il divieto di ledere quella altrui, e tutte quelle contraddizioni che ci portiamo dentro e con cui si può morire senza che si scontrino l’una con l’altra.
Studiare teoria delle relazioni internazionali e un corso intitolato “Societal modernization and the transformation of democracy” mi fa male. Molto male. Quel genere di dolore che ci piace tanto. Relazioni Internazionali non è nulla, in fondo, se non l’accorpamento di concetti provenienti da altre discipline – politiche, economiche, sociologiche, filosofiche. L’unica grande differenza è che Relazioni Internazionali chiama in causa Kant: le tue idee sono valide al punto che le imporresti ad altre società?
Questi generi di studi mi sta rendendo sempre più muta.

Età, storiche e non.

Fine credito sul cell, fine dello scambio di SMS con I, aka “La Diciassettenne”.
Dire che sento una tale differenza tra me e una diciassette non mi stupisce: mi sentivo diversa da una diciassettenne anche quando ero una diciassettenne. Non sopportavo il sottinteso che ci si attacca addosso quando abbiamo diciassette anni: quella difficoltà a essere presi sul serio, in bene e in male.
Perciò mi sforzo di non fare quello che non volevo che i più grandi facessero con me, e cerco invece di entrare nella Weltanschauung di una persona diciassettenne. Ho detto a G una cosa come:
“A quell’età non si riesce ad avere una visione d’insieme.”
Ho detto anche altre cose, ma la realtà è che addossiamo agli altri il modo in cui noi eravamo quando eravamo nei loro panni.
Probabilmente, come molte altre categorie, “la persona di diciassette anni” non esiste.

Ho parlato con diverse persone, negli ultimi tempi, dei cambiamenti legati allo scorrere del tempo all’interno di una vita.
Ho scritto a H riflessioni sul ’68, su questa mia impressione che il ’68 sia l’adolescenza della nostra epoca: quel periodo di idealismi e follie che si perdonano solo perché, per l’appunto, adolescenti. Mi sono interrogata a lungo non tanto sul ’68, ma su come chi l’abbia vissuto abbia poi potuto trasformarsi nell’esatto opposto di ciò che propugnava. Lo trovo inquietante, inquietante quanto l’incredibile adattabilità umana – oh, banalità del male.
Ho parlato dei figli altrui, dato che io non ne ho, e di come in fondo io preferisca i bambini agli adulti. Non ne sopporto la maggior parte perché la maggior parte è il riflesso acritico dei genitori, e sono i genitori che in realtà non sopporto. Ma quando il bambino è ancora “al di là del bene e del male”, e soprattutto sa ancora guardare al mondo senza convenzioni a filtrare, allora trovo qualcosa di molto simile all’essere umano che vado cercando in tutti gli esseri umani che incontro.
Ho parlato con Mater dei coetanei, di come lei per un certo periodo si sia trovata bene frequentando persone molto più giovani di lei. Spiegava che i suoi coetanei erano troppo irrigiditi, e la capisco. A volte re-incontro una vecchia, coetanea, conoscenza, e mi dico: “L’ho persa.” L’ho persa nel senso che, da individuo che cerca di cambiare il mondo, è divenuta un individuo che si è fatto assorbire da quelle abitudini che tanto deprecava nella propria adolescenza.
Sono cresciuta sentendomi dire che, una volta cresciuta, mi sarei smussata, attenuata, avrei capito le esigenze della vita, e reagendo a tutto ciò con un quasi fobico “No!”. Temevo, e temo, la cristallizzazione. Anni dopo avrei mentalizzato questo mio timore, e oggi posso dire che temo la forza inesorabile dell’abitudine. Temo, della vecchiaia, l’irrigidimento, quel diventare sempre più un “se stessi” che non riguarda il nostro vero e puro fulcro (esisterà, poi, tale fulcro?), ma piuttosto un set di abitudini e idiosincrasie mai risolte.
L’età, insomma, fa divenire arroganti. Non l’arroganza incerta e combattiva e forse cieca di un adolescente, ma quella spietata perché inamovibile di chi si sente legittimato a legiferare solo perchè ha subito di più. (Diffido di chi si vuole vedere riconoscere una certa superiorità derivata dal dolore sofferto. Il dolore non insegna: ferisce. E certi animi possono trarre da tale esperienza qualche utile insegnamento, come possono trarne da ogni altra cosa.)

M’informo e m’informo e m’informo sull’autunno del ’41 e sulla primavera del ’42, sull’Operazione Barbarossa e sulle SS, sulle NaPolA, su Heydrich e altre cose. Sistemo gli appunti per la trama, e su un foglio bianco traccio una linea irregolare, verticale, segnando: Da qualche parte a Est, Berlino, Praga… Il percorso che questo romanzo, o racconto, compirà. Gli incastri da definire, le isole in cui canalizzare l’ispirazione, l’attenzione al dato storico.
Leggo I volonterosi carnefici di Hitler, e strapperei l’introduzione. Proseguendo, trovo critiche condivisibili, ma persiste la forte impressione che Goldhagen sia sempre lì lì per dire quello che in realtà vorrebbe comunicare ma non può, e che ha a che fare con il dare una colpa. Ai tedeschi, certo, ma non credo che siano semplicemente “i tedeschi” dell’epoca i depositari del suo astio. E’ invece un qualcosa che non riesco a comprendere. Ha la prosa ingenuamente pedante, ripetitiva, poco professionale della persona che sente di avere una rivelazione da fare, sente che tale rivelazione verrà fortemente contrastata e quindi incespica nella propria coda di paglia (non coda di paglia da cattivo, beninteso, dato che i cattivi sono Altri; coda di paglia da cosa, quindi?). In aggiunta, dice un paio di cazzate così mastodontiche da farmi capire perché gli esperti del settore l’abbiano liquidato con sprezzo.
Leggo Edipo a Stalingrado di Von Rezzori, un romanzo che è molto romanzo d’idee. Lo consiglio, ovviamente, perché amo i romanzi d’idee. Lo consiglio perché sa dare in ogni frase un quadro dell’epoca e dell’essere umano al di là della singola epoca in cui vive. Ha il doppio dono d’essere un grande osservatore e un potenziale satirista.
Mi ricorda Malan, insomma.
E mi fa capire sempre più che il mio interesse non è per la storia, ma per l’archeologia della storia (ciao, Foucault). E per quello che uno scrittore tedesco chiamò “mitosofia”, se non erro. Perché il punto rimane sempre lo stesso: il successo della Shoah non sta nel suo essere un tema storico, ma un mito. E’ in quanto mito che si diffonde così tanto, e come mito insegna (che insegni cose giuste o sbagliate è altra faccenda). “6 milioni di ebrei” è mito, non storia: la storia, più complessa, dice che quel numero è inaffidabile, una scelta tra altre, come la Bibbia è una selezione di testi tra tanti altri, e non La Verità. Se fosse il numero storico puro a contare, per quanto sommario, verrebbero citati più spesso i 20 milioni (altrettanto incerto dato) di sovietici morti nel conflitto. No, i numeri sono un mezzo, uno slogan, una di quelle cose che ci permettono di definire la nostra identità a seconda di come reagiamo dinnanzi a 6 milioni di ebrei morti. Non conta in realtà neanche che fossero ebrei. Se ciò fosse così importante, e se fosse importante – come si dice – ricordare per agire sul presente, sapremmo qualcosa in più sull’ebraismo. Sono invece 6 milioni di morti appartenenti a una categoria stigmatizzata, anonima nella misura in cui può fungere da slot vuoto in cui inserire tutte le altre categorie stigmatizzate.
Trovo pericoloso il fatto che vi sia una forte incoscienza nei confronti di tutto ciò che c’è dietro a “6 milioni di ebrei”. Non poca coscienza di quello che io penso e ho appena scritto, ma in generale l’uso emotivo di “6 milioni di ebrei” senza che vi sia al contempo una riflessione storiografica, sociologica, psicologica e quant’altro non del dato storico, ma della rielaborazione del dato storico.
Me la sono presa, anche, con il “Hier ist kein Warum” di Levi. Ma ho sbagliato. Levi, da persona che ha preso parte a quella fetta di storia, ha saputo trarne un lato, una visione, che può essere rivelante di molti comportamenti umani. Me la sono presa con quel “Hier ist kein Warum” perché è stato elevato a dogma, ha reso ontologico tutto il male percepito e vissuto in tutti i campi, e in tutti i luoghi, più o meno vagamente collegati alla Shoah (e, dato che ormai “Nazionalsocialismo” viene usato come sinonimo di “volontà di una Shoah”, il campo è infinito).
Me la prendo, fondamentalmente, per una questione logica. Perché i morti ebrei sono 6 milioni e quelli sovietici 20, se vogliamo prestare fede ai dati accettati, e allora non ha alcun senso questa drammatizzazione. Le perdite sovietiche dovrebbero sollevare uno sbigottimento tre volte grande, se è veramente dell’importanza della vita umana di cui stiamo parlando. Se invece parliamo della volontà di fare del male, basterebbe osservare il godimento che taluni bambini provare nel torturare lucertole. Se invece parliamo del terrore che ci provoca l’uccisione sistematica, fordizzata, della società post-positivismo, dovremmo chiederci quante persone danno la vita per permetterci di bere Coca Cola.
(Anche) per questo leggo e mi leggerò I volonterosi carnefici di Hitler, nonché il Mein Kampf, nonostante il primo mi faccia venire voglia di liquidarlo con disprezzo per alcune uscite che rivelano delle lacune immani, e il secondo sia noioso a morte. Voglio, masochisticamente, avere sempre più mezzi per dire quanto sia delirante l’uso e abuso di tale mito. Hitler, in quel mattone illeggibile, delira meno di chi oggi fa invettive contro “Il Male” parlando della Shoah.
Ho riflettuto anche sui termini, svianti termini, di come né “genocidio” né “olocausto” né “sterminio” abbiano il minimo senso, dato che di ebrei al mondo ne esistono ancora. Paradossalmente, ma non così tanto, alcuni ebrei hanno dovuto correggere i nostri delirii linguistici proponendo l’uso di un termine non palesemente inesatto: Shoah. Ma è metaforico, come metaforico rimane “olocausto”, oltre a essere inesatto. “Genocidio” implica che l’umanità sia divisibile in razze, e quindi compartecipa della visione razzista dei promotori. Rimane un banalmente corretto “tentato sterminio”, ma come slogan fa poco effetto.