languages

Di lingue, sfumature & estremi.

Parlare quotidianamente in tre lingue è, a suo modo, rivelante.

Mittner (sì, sono noiosa: lo menziono sempre) interpreta lo scetticismo di Musil nei confronti dell’affidabilità della lingua come una conseguenza del suo essersi formato in un’Austria multilingue – del vivere, ossia, in una città in cui la normalità era camminare per strada ascoltando idiomi che si sa di non conoscere, di non poter capire, di non sapere – e sapere di non sapere rende volenti o nolenti umili, di quell’umiltà che è così difficile da descrivere a chi è abituatə a percepire il mondo sociale tramite una sola, unica ed egemone, lingua/cultura, e che per conseguenza tenderà a vedere tutte le altre lingue e culture come, se ben va, esotismi.
(Abuso di questo verbo, “tendere”, perché c’è sempre una più o meno minuscola percentuale di persone che se ne fotte delle tendenze e le sfata.)
Mi capita così spesso, e non solo come insegnante, di spiegare a qualcuno che le traduzioni pure non esistono. Che non c’è un modo breve e conciso di rispondere alla domanda “Come si dice X in questa lingua?”. Che non si tratta solo di sfumature, ma di essenzialità. Che, ad esempio, “No.” suona diverso in italiano, tedesco e inglese – e suona diverso persino a seconda della zona d’Italia in cui si è.
Dio e il Diavolo stanno dei dettagli, si dice (ossia, c’è chi tira in causa Dio e chi il Diavolo – facciamone un bell’indistinto Tutt’Uno). Soprattutto quando non li puoi ignorare. E non è male, sapete? Tutto diventa vivido, fonte di curiosità, persino quei piccoli rituali linguistici quotidiani che regolamentano le risposte alle domande più banali.
“Come stai?”, ad esempio.

Un po’ di tempo fa lessi un articolo di un blog di una tizia che, inglese o tedesca, viveva in Francia in un appartamento con studenti di diverse provenienze. Aveva una vita trilingue. E asseriva, con l’entusiasmo della scoperta, di avere tre distinte personalità, a seconda della lingua con cui rispondeva alla domanda:
“Come stai?”
Potrei fare questo gioco anche io, assecondarlo, e dirvi che in inglese sono leggero-menefreghista, in tedesco ritual-profonda, in italiano fatalista-serena. Ma sarebbe un gioco, appunto, basato sul fatto che dovrei interpretare dall’esterno, ascoltando la cadenza e le parole che uso, il modo in cui rispondo a una domanda. Sarebbe lo strano gioco di interpretare se stessi non sapendo quel che di sé si sa, ma guardandosi da un limitato punto di vista social-interpersonale.
Sarebbe come dire – e viene detto, e dibattuto, da secoli – che si cambia personalità a seconda del vestito che s’indossa, della situazione in cui si è. E’ vero e non è vero. E’ vero, ossia, che siamo abbastanza intelligenti e versatili (e non tutti lo sono, e chi non lo è viene fatto ricadere sotto una qualche sindrome) da declinarci a seconda del contesto, ma anche abbastanza stupidi da dimenticarci che quelle risposte, ormai automatiche, non sono declinazioni di chi siamo, e le crediamo entità a sé stanti.
Mi piace giocare con le potenziali declinazioni. Cercare di realizzare al meglio la calda cortesia con cui unə cliente tedescə si pone in negozio, e divertire gli apprendenti, pure tedeschi, che invece si auspicano che io dia loro un po’ dei modi di fare che compongono lo stereotipo italiano. Di cui anche io godo, quando torno in Italia. È meraviglioso godere di un gioco ricordandosi che è un gioco – una possibilità – e non una natura – un obbligo. Come sono meravigliosi T e G, che nella mia testa di trapiantata in Germania sono due squisiti esempi di Casanova italiano – che porterei in aula a mo’ d’esempio, di declinazione di cui godere, come porterei B da amici italiani per dir loro:
“Ecco, vedete: da quel calderone di usi, costumi, abitudini, prassi e ruoli giocati, può venir fuori anche questa quotidianità – e non è meravigliosa?”.
Vale per le lingue come vale per le classi sociali – soprattutto quando queste cominciano ad assomigliare a ceti.
Lavoro come commessa in un negozio (un po’ snob) di tè e come insegnante di italiano. La proporzione esistente tra i due stipendi è a volte riflesso della proporzione tra i modi in cui vengo vista (o viceversa?) – e quindi trattata. Riesco a godere di questa differenza – quella Me che serve (per quanto in Germania ci sia un rispetto a priori molto più pronunciato che nell’Italia che ho esperito, indipendentemente dal ruolo) e quella Me che sa (e non importa che io non veda una superiorità nel mio insegnare una lingua rispetto a chi l’apprende: balbettare, da adulti, fa sentire spesso un po’ depauperati) – perché posso esperirle entrambe, relativizzare, ma soprattutto perché relativizzo. E proprio perché mi piace immedesimarmi, mi immedesimo in chi invece non solo si trova a occupare un solo ruolo, ma oltretutto percepisce questi ruoli – siano dovuti alla classe sociale, alla lingua, alla provenienza, a whatever – come assoluti, e non relativi. M’immedesimo in chi percepisce il mondo come ingiustizia perché si sente alla base della piramide sociale; e in chi percepisce la propria vita minacciata da chi vorrebbe depredarne il potere. Cerco di capire la rabbia e frustrazione di quel “popolo”, che sta ricominciando a formarsi nella percezione pubblica, che si sente preso in giro e sfruttato da più o meno fantomatici (e assoggettanti come mostri mitologici, romanzati, resi quasi semi-divinità) “potenti”; e il senso di minaccia percepito da chi si sente nell’unica posizione legittima (sia quella d’essere italiano, tedesco, acculturato, whatever) in un mondo in cui sembra (sembra, ribadisco) sempre più facile sconfinare nei “territori” altrui.
Alla fine sembrano un po’ tutti aver ragione – e quindi tutti un po’ torto.
Dopotutto i potenti manipolatori ci sono – così come ci sono le masse incolte e cieche di rabbia. E mi domando se persone come Trump non rappresentino una nuova, modernissima, mescolanza tra le due cose. Uno di quei potentissimi simboli – come Faust e Hitler (e il paragone finisca qui, per favore) – il cui potere è proprio questo: saper far esacerbare gli estremi in noi. Farci diventare – sentendo che non solo è legittimo, ma è anche necessario – più intolleranti nei confronti dell’“inferiorità” altrui, quale essa sia, sia anche un dettaglio che necessita d’essere ingigantito sicché possa soppiantare l’intera persona; più intolleranti dinnanzi agli altrui privilegi, visti come ingiustizie storiche di un processo che si vede come mai mutato o che, peggio, va esacerbandosi.

Ho la fortuna, qui a Berlino, di avere a che fare con persone per cui non è lecito lasciarsi andare a estremi.
L’unico estremo che testimonio è, paradossalmente, quello dei liberali. Dovevo venire in Germania per farmi dire che sono una “figlia dei fiori nazista” (la prima connotazione dovuta al mio essere estremamente liberale e tollerante per quanto riguarda il modo in cui le persone sono; la secondo dovuta al mio essere piuttosto formalista e poco corruttibile per quanto riguarda la coerenza necessaria alla convivenza sociale). Ma d’altro canto dovevo venire in Germania per conoscere persone che diventano inconsapevolmente discriminanti proprio perché vogliono essere così tanto liberali da smettere di concepire libertà che non siano contemplate da quella forma di pensiero liberale che vuole salvaguardare tutti – tranne chi non vuole salvaguardare tutti. Strano paradosso, questo, da spiegare.
Ma, a parte questi estremi paradossali, la mia quotidianità offre un’atmosfera in cui non è lecito attaccare il prossimo sulla base di un pregiudizio. Non so se sia la Germania, Berlino (più probabile), o il fatto che ci attiriamo nostri simili più di quanto pensiamo (ancora più probabile), ma vivere qui mi fa sempre più sentire in un’isola felice – altro paradosso, perché Berlino, con il suo contenere tanti opposti, è una città che offre non pochi estremi. Che convivono, e da tempo, e non riesco ancora bene a capire come.
Il mondo qui, insomma, non mette alla prova la mia tolleranza – dovrei limitarmi a tollerare la varietà umana (ma quella non mi serve tollerarla: perlopiù ne godo), mentre non mi viene chiesto di tollerare chi non tollera la varietà umana. E non è poco, sapete?

E’ strana, Berlino, storicamente così variegata, permissiva, amante del costante divenire e dello sperimentare – e al contempo storicamente così importante, importante volente o nolente, anche a suo discapito, perché da città importante viene investita di enorme potere politico-sociale, sia da chi tutto vuole accogliere che da chi vorrebbe a tutti chiuderla.

Lingue e culture (più o meno personali).

Alla fine finisce sempre più o meno così: alla scrivania, in un tramonto che già sa di crepuscolo, gli occhi secchi che sbattono dalla stanchezza e il chiedersi se esagerare con l’ennesimo caffè.

Oggi in classe si è parlato di come l’inglese sia entrato, neanche tanto di soppiatto, nel tedesco.
Conoscete l’effetto: viene preso per il culo nella parlata milanese. Immagino che l’acredine che scatena sia dovuta al fatto che l’inglesismo viene abusato per una questione di status. Lo capisco: l’inglesismo è il nuovo latinismo. Eppure…
Oggi in classe si è parlato di come sia importante tutelare le lingue dall’influenza dell’inglese. E lo capisco, quando si parla di un mero impoverimento. Ma quando e come è un impoverimento? Non sarebbe, in teoria, un arricchimento, l’avere a disposizione un maggior numero di termini differentemente connotati?
Oggi in classe si è arrivati a parlare di come l’inglese sia superusato come seconda lingua. Si è arrivati a parlarne male, generalmente male, nel senso di: in termini generici, senza che io potessi più capire che si stesse dicendo.
Si è parlato di tradurre qualsiasi parola, anziché importarla come prestito, e al contempo dell’unicità delle lingue e quindi dell’intraducibilità di alcune parole. Nello stesso discorso.
E io mi sono persa.

Che problemi abbiamo con le lingue?
La mia, di lingua, ha dalla sua quell’unicità che si rivendica per tutte le lingue madri. Solo che la mia, di lingua, è una mescolanza di altre lingue. Parlo, ascolto, leggo, scrivo, penso e sogno in italiano e in inglese. Un po’ anche in tedesco, a volte, ed è solo questione di tempo: ancora qualche forse mese, forse anno, e andrà a far compagnia all’italiano e all’inglese. Chissà a quale sfera semantica, o a quale agglomerato di sensazioni, si uncinerà.
Al momento – in questo periodo di tartassante studio della lingua tedesca – tutto si mescola.
Gültig, ad esempio, in questi giorni ha bellamente soppiantato valid. Smetterà, lo so, ma chissà poi a che cosa toccherà. Per non parlare poi di quel breve verso gutturale che ho cominciato a fare anziché alzare le spalle e dire «Boh!». (Devo insegnarlo, il «Boh!», spalle comprese, come insegnante di italiano.) Non se sia questo a essere il miglior esempio del livello di pervasività che il tedesco sta avendo sulle altre lingue che parlo, o la mia sintassi italiana e inglese, che stanno andando a puttane (ossia stanno seguendo quella tedesca come due deliziose fan). Si assesteranno anche queste cose in un nuovo equilibrio, ma non so che ne verrà poi.
Dopo l’inglese, ad esempio, il mio italiano ha acquisito la forma stare facendo, che sfocia in stare essendo (con il verbo essere si nota di più che con altri verbi, ma la pervasività con cui ha sostituito altre strutture italiane c’è ed è generale), stare venendo fatto, etc… Parliamo poi dell’essere supposti essere, che ha compensato alla mancanza, in italiano, di una differenza tra must-müssen/should-sollen. Non c’è purtroppo una coppia di verbi italiani che io possa contrapporre per rendere questa sfumatura, e così sono caduta sull’essere supposti essere in alcune frasi.
Non riesco a vedere questa come una perdita. L’italiano, come ogni lingua, ha carenze (l’inglese e il tedesco mancano della varietà di tempi verbali al passato dell’italiano; l’italiano della varietà di tempi verbali al futuro dell’inglese; al tedesco manca il gerundio; all’italiano due modi diversi di usare l’impersonale passivo), e a queste carenze il mio cervello sopperisce pescando dalle lingue che conosce. Non sentirei il bisogno di sopperirvi, probabilmente, se non concepissi quello che all’italiano manca. E’ proprio questa mancata percezione della ripartizione del mondo tipica di una lingua straniera X a renderne veramente difficile lo studio. Il resto è ripetizione in un contesto.
Ora, intendiamoci: non scriverò un articolo accademico abusando di stare essendo ed essere supposti essere. Ma perché dovrebbe essermi più difficile dell’evitare di scriverlo scrivendovi c’ha o gli sta bene? Abbiamo (o, perlomeno, necessitiamo d’avere, se vogliamo fare certe cose) padronanza di diversi tipi di sottolinguaggi, e la capacità (o, perlomeno, necessitiamo d’averla, se vogliamo fare certe cose) di selezionare quelli adatti al contesto. Sappiamo modulare il lessico, la sintassi, persino la struttura del testo. Perché dovrebbe essere diverso quando si parla di parlare più lingue?
Le parole italiane che più s’indeboliranno nella mia testa saranno probabilmente cose come contrassegno, ossia quelle parole che non userò più in italiano, e per cui userò un equivalente in tedesco. Ma ci sono poi intere strutture mentali nella mia testa che l’italiano l’hanno visto di sfuggita: non saprei, ad esempio, scrivere un articolo tecnico nell’ambito delle relazioni internazionali, avendo appreso il discorso – e quindi le parole, ma anche il reasoning – direttamente in inglese. (In realtà ormai non saprei neanche scriverlo in inglese, non parlandone da eoni.) L’immaginario fantasy è stato scolpito nella mia testolina di bambina giocando a videogames in inglese. Ditemi mischia e penserò a una cosa: ma melee è altro. Include mischia e ressa, e… ha qualcosa di diverso, come enjoy non è godersi che non è genießen. E tutto questo fa letteralmente parte della mia esperienza. Fattuale.
Se dovessi lamentarmi di come la mia cultura personale va disperdendosi, non più rappresentata dalla lingua, avrei perso in partenza. Forse per questo non capisco i discorsi sul purismo del linguaggio: unificare la mia parlata spontanea a una sola lingua, fosse pure l’italiano, significherebbe rinunciare a parti di me. E’ così che si sente chi, cresciuto in un (teorico) monolinguismo, si trova davanti alla propria lingua modificata? (Come se le lingue, storicamente, non cambiassero in continuazione.)
(E non parliamo di come io abbia appreso molte varianti colloquiali dell’italiano verso i quindici anni, studiandole a tavolino nei discorsi e cercando di capire quando e come applicarle.)

Alla fine finisce sempre più o meno così: alla scrivania, a crespuscolo ormai spento, ad ascoltare musica blaterando di questioni astratte che il mio cervello non ha ancora riorganizzato.
Vorrei parlarvi di come in questi giorni io stia studiando la forma dadurch, dass per mostrarvi quali salti tripli la testa debba fare in certi casi per ri-pensare il pensabile ed esprimerlo, ma per parlarvene dovrei condividere con voi buona parte della grammatica tedesca che la precede. It sucks, oder…? Che per condividere si debba aver condiviso.