narratology

Scrittura, vanitas e altri indigesti sprechi.

Inciampo in persone che decidono di dover diventare lettori e/o scrittori e mi chiedo il perché.
Seriamente mi chiedo il perché.
Seguitemi nella mia mania di scegliere con accuratezza le parole, seguitemi in quel mio usare “dover”. Sono puntigliosa e talvolta indigeribile (come semi di girasole in un’insalata, che raschiano lungo la gola), ma un motivo c’è: le sfumature sono tutto, a volte.
Non inciampo in persone che, con l’entusiasmo della scoperta, mi spiegano come, dove, quando e perché tutti dovrebbero leggere e scrivere. Potrei guardare a costoro con un sopracciglio alzato ma tanta com-prensione/passione – ma non è questo il caso.
Osservo persone, invece, approcciarsi a lettura e scrittura come si approccerebbero a un corso online appena acquistato di Search Engine Optimization – o qualsiasi altro settore che ti fa alzare un sopracciglio suggerendoti: Dovrai avere pazienza, perché sono incomprensibile fin dall’inizio: armati di pazienza e cerca di capirmi. C’è indubbiamente un certo piacere nel mettersi a studiare un manuale di SEO (non ditelo a me), ma c’è anche, di base, essenziale, un certo dover.
E la mia domanda è:
Cosa porta una persona a pensare di dover diventare una lettrice critica e/o una scrittrice che conosce tutti i trucchetti del mestiere?
Quale misterioso valore, invisibile ai miei occhi, hanno la lettura e la scrittura, un valore così alto da convincere delle persone che vale la pena di impegnarsi nonostante la fatica e le difficoltà?

Sono cresciuta leggendo e ideando. Forse per questo guardo con perplessità tutti coloro che mi parlano della necessità di sudare sette camicie, sputare sangue, subire umiliazioni e farne tesoro, etc, al fine di diventare un “vero scrittore” (qualsiasi cosa sia).
Sono cresciuta, indubbiamente, con un’idea molto romantica dello scrittore. Troppo romantica. Così romantica che mi sono trovata, per anni, a cercare le grazie della Musa al fine di scrivere pezzi ispiratissimi – ma inconcludenti, incomprensibili, e che per lo più erano disperati inni al prossimo affinché mi ascoltasse e comprendesse.
Mi sono poi rotta le palle di ciò – non dell’incomprensibilità e dell’auto-referenzialità, bensì dell’inconcludenza. Era frustrante. Leggevo Hugo e come Hugo avrei voluto scrivere una grande metafora fatta di personaggi e vicende, ma ero vincolata a brevissimi e ispiratissimi squarci.
Allora ho cominciato a imparare. Senza manuali, senza gruppi di discussione, mi sono imposta di imparare a strutturare una trama, mi sono imposta di ascoltare il prossimo anziché pretendere di essere ascoltata, mi sono imposta di non dare per scontato che il prossimo indovinasse i passaggi che davo per scontati. Ci sto ancora lavorando, a essere sinceri.
In tutto questo, dall’inizio a oggi, sono stata una nazista della parola scritta. Una nazista vera, ossia una tedesca benintenzionata e perciò pedante, con una certa mania della perfezione. Noto l’inciso aperto e non chiuso, il “perchè” al posto del “perché”, l’uso del remoto quando ci andrebbe il trapassato, l’aggettivo approssimante, il deus ex machina che piomba nella storia sperando di non essere notato, etc. Ho anche imparato – ma l’ho imparato dopo – a dare un nome e una definizione ai tipi di “errori che noto”. Ehy, fino a vent’anni non sapevo cosa fosse una subordinata. L’avevo studiato anni prima, ovviamente, e poi l’avevo dimenticato. Non lo sapevo e mi avvalevo di una sintassi in cui le subordinate creavano castelli e labirinti.
E non capisco, veramente non capisco, coloro che puntano il dito contro un periodo (ho dovuto googlarlo: non mi ricordavo il termine) lungo otto righe e sei tra subordinate e coordinate dicendo che annoia, o che è illeggibile o che, addirittura, è scritto male. Il problema è loro, non del periodo. Siamo quello che leggiamo. Da persona che ha passato l’adolescenza leggendo gente morta, un periodo di otto righe e sei tra subordinate e coordinate è perfettamente normale. Abitudine, nulla di più. Capirei se, dopo il dito puntato (con fare meno normativo), seguisse un “E’ poco commercializzabile” o un più esteso “La maggior parte della popolazione, statisticamente, non legge né mastica periodi di otto righe con sei tra subordinate e coordinate, quindi fa fatica”. Sono la prima a dirlo. Ma siamo sinceri, posteri e coevi…
Se non riuscite a seguire un periodo di otto righe con sei tra subordinate e coordinate è perché non siete abituati a ragionare a livello complesso. Stop..
Senza che ciò sia un peccato mor(t)ale. Semplicemente, non fa per voi. E – similmente – non è detto che le vostre inclinazioni facciano per il resto dei lettori.

Da persona che ha imparato a scrivere similmente a quei musicisti che imparano a comporre musica senza saper leggere uno spartito, non capisco coloro che – avendo deciso di approcciare questo campo – cominciano dalle regole relative allo spartito.
Perché massacrarsi così? Perché sottoporsi a una tale agonia? Qual è il grande premio che aspetta alla fine del percorso?

Notando l’approccio iper-tecnicista che domina alcuni contesti del sottobosco letterario (quel luogo in cui si è uno scalino sopra il “Nessuno” e un quantitativo indefinibile di gradini sotto il “Qualcuno”), mi viene in mente il Seicento. Beh, mi viene spesso in mente il Seicento.
Nello specifico, mi viene in mente quel Seicento in cui Dio è stato messo in dubbio dalla nascente scienza empirica, in cui i fedeli più incerti (coda di paglia, eh?), pur di dimostrare l’esistenza del loro Dio, ricorrono a un approccio iper-formalista, pantonima di quello scientifico, per dimostrarne l’esistenza.
Amo il Barocco. E’ uno dei miei periodi preferiti (o non mi verrebbe in mente il Seicento ogni tre giorni). Lo amo con la sua vanitas costante e con il suo costante memento mori, enormi sintomi di una crisi di valori. C’è un vuoto di significato e in qualche modo bisogna riempirlo – e lo si riempie il più possibile, perché l’Abisso non ci guardi negli occhi. Eccolo, il Barocco.
Il prezzo da pagare è una certa vuotezza di disegno. La decorazione è meravigliosa, la strutturazione impeccabile, ma sotto – se si riesce ad andare sotto a quel tripudio di angeli e demoni aggrovigliati – l’artista non ha più niente da dire. Dio è malconcio, la scienza – che avrebbe dovuto sostituirlo – incespica, e allora… Di cosa vogliamo parlare?
E allora arriva Caravaggio.
Caravaggio che non ha tecnica. Ciò che rende così reali (correttamente: verosimili) i suoi quadri non è una strutturata conoscenza delle proporzioni umane (qui e lì, in alcuni quadri, l’anatomia va gioiosamente a farsi fottere a braccetto con la prospettiva), ma uno spirito d’osservazione encomiabile. Caravaggio copia – e, come per ogni copia, quel che realizza è un’interpretazione, e perciò sempre e comunque arte (qualsiasi cosa tale parola significhi).
Caravaggio non sa cosa siano subordinate e coordinate, non ha studiato la gestione del ritmo, ignora completamente cosa sia la focalizzazione, show e tell sono termini ignoti. Eppure lo fa. Le fa tutte, queste cose, per lo stesso motivo per cui un interruttore funziona anche se non sai come mai funzioni.

Sono ben lontana da Caravaggio. Sono la nazista della parola scritta di cui sopra. Noto l’anatomia incespicante di Caravaggio come noto l’uso dell’imperfetto al posto del remoto, e in ambo i casi sento un formicolio spiacevole risalirmi lungo la spina dorsale.
Ma finisce lì.
Non definirò Caravaggio un incompetente perché non saprebbe descrivere le proporzioni dell’uomo vitruviano, né definirò incapace lo scrittore che sbaglia il congiuntivo. Sarebbe stato meglio se, ma non è. All’approccio formale preferisco un approccio “olistico”.
Ed è questo il motivo per cui mi troverete a entusiasmarmi dinnanzi allo scritto sgrammaticato ma rivelatore di un diciottenne e a guardare con sufficienza al racconto formalmente impeccabile di un autore che non ha niente da dirmi. Il primo avrà sempre tempo per imparare la tecnica, per il secondo le cose saranno meno facili. Non che non si possa imparare a dare una certa profondità, una certa innovatività (termine improprio, ma concedetemelo), una certa unicità a ciò che si scrive – ma per farlo bisogna imparare a conoscere se stessi e a esprimere il (quasi) inesprimibile. Insomma, imparare la tecnica è decisamente un gioco per bambini, al confronto.

Perciò non capisco chi, affacciandosi alla lettura e alla scrittura, eleva la tecnica a proprio idolo. Non capisco chi della tecnica fa un fine, non un mezzo. Perché conoscere a menadito la tecnica, in una scala da 1 a 10, permetterà di raggiungere un 7. E chiunque può impararla – e il prezzo (e quindi il valore, in questa nostra società intrisa di capitalismo) è un indice di rarità.
Mi chiedo il perché.
Seriamente mi chiedo il perché.
Perché puntare così in basso?

(Sì, questa era una Lokasenna. Intelligenti pauca. Amen.)