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Di tagliole e pareti pulsanti.

Non riesco a scrivere una scena di Rush in Peace.
Ho provato a cercare ispirazione in cantilenanti canzoni – ho bisogno di una prosa delirante come una cantilena – e poi mi sono arresa, cercando conforto in Providence degli Ulver, un pezzo che ha la tristezza senza tempo di un lamento stagliato su uno sfondo barocco.

Mi sono svegliata con una sensazione-ricordo-atmosfera che va dritta nel contenitore Sehnsucht.
Era una sensazione-ricordo-atmosfera molto europea. Parla di un palazzo grave e triste come una vecchia scuola, che ai propri tempi d’oro dovette essere luogo privilegiato per poche, eccelse, menti. Dovette… Come se tale luogo fosse mai esistono all’interno della mia testa.
Ma comunque.
In questo periodo il mio intestino confonde spesso il privilegio dell’Europa di un tempo con il privilegio che io avrei voluto avesse. Sogno aule che custodiscono l’eco di passi diligenti, mentre con tutta probabilità hanno ospitato quelli di primogeniti di ricche famiglie.

Providence mi mette tristezza.
Una tristezza lieve ma profonda, che solo gli Ulver riescono a comunicarmi.
Per questo l’ascolto, non per masochismo – gli Ulver mi mettono in comunicazione con me stessa, senza che io debba ricorrere ad artifici, proiezioni e rappresentazioni da indossare come abiti che fingi essere pelle.
Com’è, la mia pelle?
È da mesi che metto in questione la mia identità.
Qualche benintenzionato e avido promotore di cultural studies direbbe che ciò è in qualche modo collegato alla mio risiedere all’estero. E può darsi. Ma solo collateralmente, temo. Il soggiorno all’estero è, credo, stato nient’altro che un’occasione per l’insorgere di certi dubbi. Dubito dei dubbi stessi, e quindi mi è difficile dar loro un nome.
Oscillano, come oscilla la mia percezione del tempo.
Hölderlin e il suo aver sfidato il tempo. La torre e la pazzia per tre decenni – no, no, no, vi prego…

Ho voglia di vedere F. F ha voglia di vedere me. Ci tocca tramare alle spalle di altri per vederci.
(Non nel senso, creature, che ci sono segreti da mantenere – io e F siamo troppo essenzialmente fanatici dei nostri principii per ciò – ma nel senso che siamo due creature tendenzialmente sempre impegnate in qualcosa e nello specifico la sera in cui potremmo incontrarci lui ha già un appuntamento, che dovrebbe quindi procrastinare – e gli ho detto, con poca convinzione, di non farlo perché credo che il suo sentirsi in colpa sia simile al mio: accade di rado ed è insolubile. Oh, com-passione).
Ho voglia di vedere F ed è strano il modo in cui sento questa voglia.
È strano, in generale, il modo in cui mi rapporto alle mie voglie di incontri umani e alle mie nostalgie, e se posso definirlo “strano” è perché lo sto realizzando ora.
Qualche tempo fa, in più riprese, ho speso parole e parole parlando della mia nostalgia per VB. L’ho sottolineata come se fosse una sensazione nuova e rara, quando ciò che mi colpiva era il fatto che era una semplicissima, immotivabile con speculazioni, nostalgia. Normale, insomma. E questo deve avermi shockato. Seriamente. Mi ha shockato così tanto che vi ho reagito come la me stessa di una volta avrebbe voluto saper reagire, essendo incapace di farlo.
Ho ignorato.
Da un giorno all’altro, credo.
Non ne sono sicura, perché mi sto ancora analizzando, e quindi è tutto in forse.
Ho avuto paura.
Ho ancora paura, creature – ho paura come si ha paura delle cose che si crede di conoscere perché le si è incontrate in simili manifestazioni, e con umana arroganza si generalizza.
Urlo a bassa e scazzata voce addosso a Mater di non generalizzare – e con lei questo termine ha il significato che io gli do, con le connotazioni mutuate dalle PNL – le sue precedenti esperienze amorose, e conoscere ogni persona senza preconcetti di genere.
E intanto generalizzo le mie nostalgie. I miei attaccamenti. Le mie debolezze. Come se VB fosse anche solo lontanamente simile ai miei precedenti rapporti – sì, lo è, lontanamente, e la mia paranoica mente a ciò si aggrappa per generalizzare e iniettarmi inquietudine.
I rapporti a distanza sono una tale costante nella mia vita che ho smesso di considerarli diversi da tutti gli altri. Sono la mia norma. Quando mi si domanda se non è difficile, avere un rapporto a distanza, stupisco e realizzo di averne.
Avrei voluto piangere addosso gratitudine a VB ogni volta che, dinnanzi a tale consapevolezza e alle insidie che reca con sé, si è fatta rassicurante. Ricordo attimi – sì, sono solo attimi, non abbiamo lasciato che durassero più di un minuto per volta – spesi a iniettarmi queste piccole rassicurazioni – “Verrò prima di tre mesi”, o “Troveremo un modo“, o whatever. Non posso dimenticare la consapevolezza a ciò collegata: se VB in quegli attimi non fosse stata così rassicurante, allora io… allora io… allora non so cosa io avrei provato. Il terrore che si prova quando ci si trova davanti alle sconosciute parti di se stessi – non importa quante siano, quanto larghe e pervasive siano: ogni volta si presentano in forma di abisso.
C’è una cosa che so fare incredibilmente bene, creature, e forse dovrei mostrarla assieme a tutte le cose che mostro quando conosco qualcuno: so alzare e abbassare la levetta della voglia di vedervi. So godermi il tempo con voi, quando con voi sono, senza remore né freno – ma quando non ci siete so trattare il vostro ricordo come si tratta un lusso secondario.
E lo faccio anche con VB.
Ho cominciato a farlo anche con lei da quando, questo inverno, la nostalgia mi ha messo a terra e ha cominciato a prendermi a calci all’altezza della bocca dello stomaco, nessuna pausa per farmi respirare – per poi lasciarmi rantolante a terra e sussurrarmi che sarebbe tornata, ma prima del dovuto, che sarebbe tornata quando VB fosse tornata, per sussurrarmi: “Ci vedremo fra una settimana, che domani saranno sei giorni, e poi cinque, e poi… Sai contare?”
So perché Signora Nostalgia si è mostrata proprio quest’inverno. Ha bisogno di un vuoto in cui insinuarsi, e il mio essere – questo inverno – era una voragine. Un vuoto esistenziale così profondo da portarmi a comporre inutile bigiotteria pur di colmare quell’horror vacui. Nessun interesse a riempire le mie giornate, che eppure scivolavano via – oh memento mori.
È stato un incubo.
Questo autunno è stato un incubo e, come al solito, non so come io sia riuscita a non sprofondare del tutto. Culo, follia, o le schiere angeliche piazzate dietro al mio deretano per vegliare su di me.
Signora Nostalgia, come ogni altro tenente della Generalessa Debolezza, aveva bisogno che io cedessi.
Rush in Peace è stato riportato a galla per disperazione, credo. Questo fottuto romanzo richiede un sacco di sbattimento – soddisfacente, a morte, ma richiede energie e concentrazione – e per anni ho procrastinato, non avendo voglia di impegnarmi con questa responsabilità con Noesis – perché poi mantengo la parola o muoio in sensi di colpa.
Ma mi serviva – o, comunque, a ciò è servito: ad alzare un dito medio in direzione di Signora Nostalgia.
Quello che non avevo considerato era che avrei applicato, anche con VB, la vecchia tecnica dello scindere, come una scimmia, ciò che hai davanti e di cui puoi godere da ciò che è lontano e che quindi non ha senso catalizzi la tua attenzione.
Poi ci sono attimi, come questo, in cui gli Ulver mi mettono in comunicazione con me stessa e io guardo alla mia coscienza come a un castello pieno di ali che non devono essere visitate in certi periodi dell’anno. Sbircio, grazie agli Ulver, sbircio come si sbircia un ventre squartato, con curiosità, com-passione (oh, la com-passione per se stessi – ciao, dissociamento) e timore.
Vivo, a volte, con l’ottica della persona ferita che usa tutte le energie per procedere anziché curarsi. Se resiste ancora un po’, e ancora un po’, e spera che la prossima pallottola non sia letale ma l’ennesimo buco da ignorare, allora arriverà finalmente al meritato riposo.
Basta tenere le porte chiuse.
Molti emeriti cervelli morti hanno lasciato in eredita il vecchio Leitmotiv della sofferenza come collante dell’umanità. Tradotto: “Accertato che questo mondo può essere puzzante merda, cerchiamo di dargli un senso, a questo letame, diciamo che lo condividiamo tutti, così almeno qualcosa di produttivo ne ricaviamo.”
Se vi cedessi, potrei scrivere ora che la vita – la vita, una concezione di vita che tutti esperiamo – è così strana nel suo saper celare immani tragedie dietro a ignorati buchi delle serrature. L’ironia della vita, poi, che vuole che le cose più fondamentali dipendano da piccoli sottovalutati casi.
Ma non voglio cedere a ciò.
Il fatto che io possa un giorno soffrire come un cane e come un cane staccarmi una zampa pur di liberarmi da una tagliola e il fatto che probabilmente anche voi potreste non mi fornisce neanche un indicativo. Solo laidi congiuntivi e speranzosi condizionali.
Il fatto che io abbia voglia di vedere F come si ha voglia di ingoiare antidolorifici non lo rende un alleato vita natural durante. Alleato contro cosa? F, come ogni creatura, un domani potrebbe – per sua volontà o contro la sua volontà – essere causa della tagliola che troverò a mordermi la carne.
La soluzione è semplice, è sempre la stessa: godermi il presente, beata sia l’immanenza, e non sfruttare una delle potenzialità del Verbo: queste parole capaci di portare al qui-e-ora ciò che non è presente né spazialmente né temporalmente.

Il mio caro Agrippa, pace alla sua anima maledetta, probabilmente usava attaccarsi sanguisughe addosso per parlare con i morti.
Vorrei prendere la parola “debolezza”, e “debilitazione”, e sdoppiarle, sì che abbiano due significati – perché la debolezza indotta di cui giovava Agrippa per avere visioni è diversa da quella inconsapevole che ci trascina nei più reconditi e beceri e a nausea conosciuti lati di noi.
La debolezza di Agrippa è quel rinunciare alla protezione del proprio funzionante corpo per aprire la mente. Lo fanno anche gli stupefacenti – e troverete benintenzionati santoni post-moderni pronti a dirvi che non c’è bisogno di droghe per avere le stesse visioni, per giungere alle stesse illuminazioni, per sentirsi connessi con il mondo e sentire che il corpo è un impedimento sottile quanto un velo, mera illusione.
L rincorre, nei suoi studi, il potenziale effetto delle droghe. L cerca materiale sui funghi allucinogeni dopo aver sentito che alcune persone ci sono rimaste sotto. C’è questa strana ironia, in questo, sensuale e atroce. Il come una sostanza stupefacente possa abbattere anni di pensiero comandato e aprire la mente ai suoi più reconditi delirii. C’è chi rimane shockato dinnanzi ad anni in Vietnam, e chi rimane shockato dopo aver visto cosa la sua mente può concepire. Probabilmente è la stessa cosa.
C’è chi rimane shockato dopo aver fatto l’Agrippa della domenica, esserci riuscito e aver visto il fantasma della nonna morta nell’armadio. Ho conosciuto un sacco di persone, in percentuale, che parlano delle proprie esperienze “occulte” come un ebreo parlerebbe del proprio sangue a un convegno di nazionalsocialisti. Ho guardato il timore nei loro occhi – un timore pacato, velo sopra al terrore – e mi sono chiesta – con la cupidigia di L – cosa li abbia costretti a osservare le proprie budella srotolate sul pavimento.
Non ho mai ingoiato sostanze stupefacenti capaci di costringermi a osservare la dissezione della mia anima, e non ho mai visto né fantasmi né funzionari della gerarchia infernale – l’unica volta che mi sono scopata Loki lui era invisibile, quindi niente foto da mostrarvi. L’amplesso mi ha lasciato solo un gemello siamese come prole: la consapevolezza che “Loki” e “Lucifero” sono costruzioni umane, perché se qualcosa esiste ha confini troppo malleabili per essere racchiuso da un’idea, e quella che tutto è come deve essere, ossia una totale, onnicomprensiva accettazione di tutto ciò che la mia mente può partorire, senza scarti.
Non ho, insomma, il background della persona allucinata che ha vissuto nelle proprie visioni – ma rido e piango quando sento qualcuno parlare dell’aver fatto un sogno simile a uno snuff movie con il tono sussurrante e riverente di un massone che gioca al vedo-non-vedo con un possibile iniziato. Rido quando qualcuno eroticamente tace l’avere stupri e massacri che gli girano tra i pensieri, che se solo tu sapessi quello che so concepire… Rido e piango quando qualcuno, dinnanzi a un corpo sbudellato artisticamente, porta le mani a coprire la bocca e stupisce, perché lo stupore presuppone ignoranza in materia.
Ascolto gli Ulver per comunicare con me stessa e guardo video di Silent Hill per rimettermi a posto l’intestino. I miei incubi non sono cosparsi di massacri – se ci sono massacri, sono di sottofondo, interessanti come le tendine in una sit-com inglese – e questo deve essere merito dei videogames che hanno costellato la mia infanzia.
Silent Hill mi rende un servizio: inserisce in un quadro coerente alcune delle immagini che compongono la mia disordinata percezione del Creato. Dà, così facendo, loro un senso. A volte temo che, alla fine, tutto ciò che conta è l’avere un senso con cui benedire il coacervo di frammenti di Creato che abbiamo racimolato. Le disperse immagini di corpi contorti, intestini usati per comporre graziosi festoni, i volti dai ghigni unheimlich e quant’altro che sonnecchiano dietro alle porte meno esposte del mio castello vengono così acquietati – do loro un biscottino per saziarli. Approvano mugugnando i loro strani versi e tornano a copulare con le pareti pulsanti, lasciandomi in pace.
Non vi dirò che non potete immaginare cosa la mia mente possa concepire. Magari potete farlo, e ingoiare funghi allucinogeni non vi metterebbe davanti a lati di voi che non conoscete già. Il fatto che non infestiate la Rete con le vostre visioni non significa che non ne abbiate. Oltretutto, odio i “non potete immaginare”, i “meglio che non ve lo dica”, gli occultisti travestiti da massoni che sibilano che certe cose sono pericolose e via discorrendo. Non voglio neanche fare la parte del Lovecraft della situazione, assillato suo malgrado dalle concezioni della propria testa: non sono le pareti che inglobano le creature contorte che se le fottono a crearmi disagio, ma l’imbattermi in persone che stupiscono dinnanzi a un intestino usato come sciarpa. Quello stupore mi dice che le voraci pareti del mio castello sono un po’ oltre la soglia.
Rimbaud – che continua a essere mio ospite – ride dicendo che il senso sta tutto qui: mostrare l’oltre.
Altri emeriti cervelli morti hanno lasciato questo in eredità: l’artista è colui che mette in contatto con l’oltre. È a causa di questa visione che le persone gongolano allo scoprire che 3/4 degli artisti morti erano massoni – perché il presupposto è che la Massoneria fosse una misterica associazione di artisti-veggenti che si facevano incaprettare dal Diavolo, e non un club di polverosi e auto-compiaciuti ricconi.
È questo, l’Artista?
(Come se esistesse l’archetipo de L’Artista.)
È una creatura che guarda oltre – oltre le serrature?
È dal disseppellimento di Rush in Peace che blatero di artisti, direttamente o meno. Odio nominare l’Arte – concetto-puttana che cambia a ogni volgere di secolo. Ho dovuto permettere a Rimbaud di trasferirsi in camera mia per avere un alter-ego con cui parlare d’arte. (Tra l’altro, informatevi: sicuramente qualcuno avrà infilato anche Rimbaud nella Massoneria.)
È da Rush in Peace che gioco a fare l’artista. Se non giocassi questo ruolo non potrei permettermi né la coprolalia con cui scrivo su Facebook né il mio offendervi qui.
Ma, avendo scelto Rimbaud come co-inquilino, parlando di artisti non posso non parlare di veggenti. Colpa sua, non mia. Vi è andata bene: se avessi scelto D’Annunzio vi tedierei con barocche descrizioni di tappeti e userei il tempo per spiegarvi per quale motivo dovete venire a letto con me. Ma tanto ci verrete comunque, e quindi torniamo a Rimbaud.
A Rimbaud, agli intestini e all’oltre.
Gli emeriti cervelli morti che hanno lasciato in eredità l’ideale dell’artista come veggente squilibrato postulano l’esistenza di quest’oltre, questa dimensione misterica post-Cristianesimo. Prima del Positivismo oltre c’era Dio. Dopo il Positivismo c’è stata una gran confusione su cosa ci fosse oltre, e così la psichiatria ha preso il posto della religione. Chi di voi ama Lovecraft lo ama anche per questo: ha fornito un’alternativa a Dio, un’alternativa che conteneva – a differenza dell’ultimo, appassito, buono-mieloso Dio – Bene e Male estremi, saltando a pie’ pari le noiose spiegazioni psichiatriche.
Psicologicamente parlando, dietro alle serrature delle ali più polverose del mio castello c’è psicopatia. Il fatto che io abbia squarciato i cadaveri della maggior parte delle persone che conosco intimamente, oltre a essermi scopata i loro genitori, significa che un giorno lo farò. Quindi, tenetemi lontana dai vostri genitori prima che ne abusi.
Artisticamente parlando, ci sono potenziali. Artisticamente parlando – e mi conviene parlare artisticamente, perché la sola idea di scoparmi i vostri genitori mi fa stringere le chiappe – ho una scelta: o assecondare le mura pulsanti che amano essere guardate mentre inglobano fatine gementi, dando così corda alla mia creatività, o liquidarle dicendo che certe concezioni le hanno tutti, non ho niente da mostrare, semplicemente non ha alcun senso soffermarmi morbosamente a contemplare la fatina che strilla bestemmie mentre la parete la mastica.
Ho sempre optato per la seconda, ma non è colpa mia, bensì vostra: siete voi che continuate a chiedermi da dove io tragga tanta fantasia, facendomi sentire una bestia rara – nel bene e nel male (ma il male da qualche tempo a questa parte, più o meno due secoli, va di moda, e quindi è una contrapposizione fasulla).
Rimbaud ride e dice che m’illudo di scegliere. Che assecondo. Che lui ha veramente scelto e ci ha rimesso una gamba. È una merda, perdere una gamba, altro che fatine uscite da playboy e stuprate dalla tappezzeria – e terrei la bocca chiusa, se avessi perso una gamba.
Può darsi.
Quel che mi infastidisce, comunque, è che la scena che non riesco a scrivere per Rush in Peace dovrebbe essere esattamente questo: aprire una delle porte di solito aperte da funghi allucinogeni, sedute spiritiche e sanguisughe e farlo per scodellarvi un po’ di delirio in formato prosa. Ve la vorrei aprire vestita da maggiordomo e con un sontuoso inchino – e invece è la terza volta che cerco di darle forma, e per la terza volta ho fallito.
Voglio dire, è come trovarsi nel letto una playmate e fare cilecca. Fortunatamente nelle ali più recondite del mio castello non è immorale legare una playmate al letto, e quindi non rischio che scappi, ma è frustrante. Oltre a ciò, la stronza comincia a deridermi. E ciò, ovviamente, peggiora la situazioni instillandomi panico – e il panico rende ancor più goffi – così goffi che stavolta non so chiudere con un finale a effetto, spiacente.

Esilii.

Ci sono frasi che ti rimangono in mente anche se non avrebbero voluto. La cosa peggiore è che hanno senso solo per te, ed è ogni volta così difficile riportare a galla quello che sono arrivate a significare.
La frase venne pronunciata da un amico, anni fa, in riferimento a un altro amico.
Disse:
La sua terra e il suo cielo sono troppo distanti.
La terra è il reale, il cielo l’ideale.

Notti e notti fa ho sognato di mangiare erba. Era l’erba di un disturbante verde del giardino che circondava il mio appartamento a Kiel. Mesi dopo, in Italia, avrei letto Lezioni di tedesco e scoperto in quale modo il verde possa richiamare follia. Lo fa, in un paesaggio dai toni che sfumano nel violaceo – lo fa, quel verde così acceso da risultare rumoroso.
Comunque, nel sogno mangiavo erba perché ero felice di essere lì. Così felice da rasentare la follia, evidentemente. Felice da piangere – sì, nel sogno piangevo. Meglio farlo nei sogni.
Poi, nel sogno, urlavo. Disperazione. Urlavo perché un contingente di italiani mi aveva seguito nel mio vecchio appartamento, e urlavano e mettevano in disordine, e inciampavano l’uno sull’altro e bicchieri cadevano e nessuno puliva – e io cercavo di farli svanire. Inutilmente. Credo anche di avere cercato di ammazzarli. Inutilmente.
Della mia crescente follia ho già discusso. Andiamo oltre. Arriviamo alla telefonata di ieri sera, con VB, al termine della quale – dopo aver esposto il sogno – ho pensato di essere debole. Debole come un animale che non sa adattarsi. Soffro dell’essere stata spostata da un acquario all’altro, tutto qui. Posso tirare in causa caverne platoniche e sgraditi ritorni a fissare ombre su muri, ma il tutto può essere riassunto in semplice debolezza.
Sto male.
Non sto male da urlare (quello lo faccio nei sogni), ma da vedere le mie capacità produttive ridursi in modo preoccupante.
Quest’anno ho sudato per studiare. Ho passato mesi con una costante: il dirmi “Impegnati di più!”, tentare di farlo e fallire.
Sto lavorando alla tesi con risultati vagamente migliori, ma con uno stress che mi abbatte in egual modo.
Ho messo in conto il dirmi, di due relatori su tre, che questa tesi è sprecata per una triennale – lo so, e non mi sbatto tanto per l’università ma per avere in mano un lavoro da mostrare potendo dire che è mio, ma non è quello che avrei voluto sentirmi dire. Avrei voluto essere incoraggiata nel mio sbattimento non richiesto, non demotivata sulla base della condivisa consapevolezza che la tesi è una presa per il culo, consapevolezza che si fa lesiva quando viene reiterata fatalisticamente. Ma è normale, qui è normale – è questa norma che mi ammazza, è proprio questo il punto, che sia normale ciò che non dovrebbe esserlo, si sa che non dovrebbe, ma alla fine lo si ingoia. Disprezzo chi lo ingoia. Chi lo ingoia probabilmente disprezza in me quello che definirebbe “idealismo” e io chiamo “in Germania era così, cazzo, quindi può esserlo anche qui, se smetteste di stare a 90°”. Disprezzo chi lo crede idealismo e per questo disprezzo mi trovo a vivere male – non si vive bene tra chi disprezzi.
Ho messo in conto il dirmi, di un relatore, ridendo soddisfatto, che la De Beers potrebbe denunciarmi. Ne dubito, ma può essere. Ma il punto non è questo. Il punto è che non avrei voluto vederlo ridere di una mia possibile disgrazia. In un altro Dove, quell’uomo sarebbe guardato con disprezzo dai colleghi e sarebbe a casa a criticarsi per come svolge il proprio ruolo. Quel Dove non è qui. Qui è normale – e quindi nessuna critica parte, perché tanto è inutile. Ho la soluzione personale (ho sempre soluzioni personali per problemi simili), che consiste nell’abbattere la sua boria con le sue stesse armi – ma è stressante, è semplicemente stressante. Si può fare, certo, tutto si può fare – ma si vive meglio non facendolo.
Ho messo in conto tutte le critiche ricevute e le frasi spronanti. La bilancia è crollata dalla parte del primo piatto.
Me ne frega?
Relativamente, non lavoro a questa tesi per levarmi dalle palle la laurea.
Ma scrivendola mi rendo conto di quanto stress mi causi l’idea che una parte possa essere buttata nel cesso per il fatto che è troppo lunga, un’altra perché ho abusato di subordinate, un’altra perché ho dimenticato di mettere l’agente dopo un passivo ritenendolo scontato. La relatrice vuole che i responsabili siano nominati.
Mi stressa sapere che la stessa relatrice è il genere di persona che ritiene necessario avvisare del fatto che la tesi non ha intenti antisemiti in quanto riporterà i cognomi dei membri del Consorzio, anello necessario al monopolio della De Beers in quanto canale unico da cui passava la produzione (un esperto di finanza si masturberebbe sulla struttura della De Beers), e questi cognomi sono riconoscibili come tedesco-ebraici (ma basta nominare i Rothschild per sollevare polveroni, dato che sono tra i più citati dai cospirazionisti – googlateli e provate; è stato un Rothschild a finanziare consistentemente la De Beers, ecco il problema della De Beers) per un occhio un minimo informato, ciò all’interno di una tesi che sottolineerà il come la De Beers abbia inventato i campi di lavoro. Sono cosciente del fatto che questo potrebbe portare i soliti cospirazionisti della domenica a dire che gli ebrei hanno compartecipato all’invenzione dei campi di lavoro. Ma non ho intenti antisemiti, e una coscienza pulita non avvisa di essere pulita. Oltretutto, è poco professionale. È una cazzo di tesi che riporta dati, non una pubblicità progresso.
Ho un relatore non ufficiale che attende di mordermi alla giugulare (lo so perché ha passato il tempo a farlo, quando abbiamo parlato), e neanche questo in astratto mi tange – ma il problema, infine, è che la somma di cose fa sì che mi trovi stressata e iper-attenta a cazzate mentre la scrivo – mi trovo, insomma, a lavorare sotto panico, che è l’esatto modo in cui devi lavorare per lavorare male.
E questa consapevolezza mi stressa ulteriormente.
Sono stanca.
Voglio il mio recinto attorno a una casa nel nulla, il mio fucile per ospiti indesiderati che non verranno e il mio cane per fare da guardia a una casa che non verrà invasa.
Ho cercato innumerevoli volte di sfogare qui il mio stress, ma non funziona. È da dieci mesi che sono tornata in Italia, e la situazione è come l’avevo predetta: mi sento nella caverna platonica. Parlo ai posteri. E cazzeggio con i coevi. Poi sogno di tentare di ammazzarli. Non è colpa vostra, come al solito, e questa è la cosa peggiore. Reagisco aggrappandomi con entusiasmo alle persone che sanno regalarmi bei momenti – sono tantissime, e quindi forse è ai momenti che mi aggrappo – sviluppando un gruppo ideale di conoscenti in cui poter dire di sentirmi bene. Il che è terribile.
Ma la cosa più terribile è che per andare all’estero mi serviranno energie. Mi viene ripetuto che dovrei rilassarmi – beh, qui non posso. O, meglio, non riesco. Sono debole. Smacco e impedimento, perché quelle energie mi servono, e adesso mi serve cinque volte il tempo che una volta mi sarebbe servito per portare avanti un progetto. Oh, spirale discendente. E anche questo stressa, ovviamente. Ci mancherebbe.

Rush in Peace mi allieta le giornate, ma non solo: riempie buchi. E questa seconda parte non va bene. Ok, è un progetto in cui credo e che sta funzionando, ma sta sopperendo a un po’ troppe cose.
Non è l’unica cosa che ho ripreso in mano, come scritto in precedenza.
Infine, Maletta aveva parzialmente ragione: scrivere è la reazione a una presenza dell’assenza.
Ma anche la mia visione aveva parzialmente ragione: scrivere è criticare.
E, infatti, in Germania non riuscivo a scrivere.
In Germania avevo quello a cui prima anelavo, e da molteplici punti di vista. Per questo guardo con affetto B su Facebook: B è stata una delle manifestazioni di un qualcosa che cercavo. È stato un momento, un attimo, vissuto con il placido entusiasmo di chi sa che non sta vivendo un’occasione unica. Non è B in sé, ma B come possibilità – che in Italia stento a trovare, inciampando in troppi ostacoli. In Germania non aveva senso scrivere anelanti descrizioni di simili momenti: li avevo. Non aveva neanche senso soffermare lo sguardo sulla semplice piacevolezza di una serata tra amici bevendo birra: bastava uscire da camera mia e andare in cucina per trovare quella situazione – praticamente ogni sera. Sarebbe stato stupido starmene chiusa in camera anziché spostare il culo fino alla cucina – stupido o no, non mi veniva. Mi potreste chiedere, come io faccio con me stessa, perché non posso avere una serata tra amici con birra annessa anche qui, perché fisicamente posso. Non ho una risposta soddisfacente, so solo che ci sono troppi ostacoli: mi piazzo tra amici a bere una birra e tante piccole cose rovinano il momento. Sono dettagli, veramente. Sono come zanzare immortali che ti ronzano attorno. È il dettaglio di dover stare attenta nei cessi sporchi, quello della battuta retrograda, quello dello sguardo preoccupato di X, la poca professionalità della cameriera e il fatto che la birra costa il doppio, probabilmente.
In Germania non avevo granché critiche sociali da sfogare su carta. Quelle su cui mi ero formata lì non c’erano – quelle presenti lì non mi avevano afflitto sin dalla mia prima infanzia. Avrei dovuto mettermi nei panni di un tedesco che soffre il proprio essere troppo controllato, ma non erano ancora panni miei. Mi sono resa conto di quanto del mio scrivere desse per scontati piccoli disagi quotidiani, a Kiel non presenti.
A tal proposito, c’è l’elemento finale, quello che mi fa tuttora riflettere: il convivere con piccoli degradi quotidiani me li ha fatti, negli anni, significare. Quando ero in Germania guardavo a miei scritti romanticizzanti il bordo sporco del finestrino di un treno, e mi dicevo che non ero più in grado di fare una cosa del genere. I treni tedeschi che ho preso non avevano finestrini dai bordi sporchi – non avevo quindi bisogno di dare un significato a quell’imperfezione inesistente. Scriverne mi avrebbe dato l’impressione di scrivere un fantasy. Davvero. O di essere la classica scrittrice annoiata nella propria bambagia che fantastica degradi che non deve affrontare.
Tutto Rush in Peace si adagia su un’ambientazione fatta di degrado, mancanti riparazioni, soluzioni d’emergenza, piccoli squallori quotidiani. Amo ciò, di RiP. Lo amo veramente – ed è questo il paradosso. Amo scriverne e posso farlo solo vivendo in un ambiente che abbia questi elementi, ma al contempo odio vivere in tale ambiente.
Insomma, in Germania non sapevo di che scrivere. Mi è venuta, a un certo punto, voglia di scrivere di una romanticizzata Venezia – di scrivere, ossia, di quello che in Italia c’è e in Germania no (o, perlomeno, molto meno e in maniera diversa): città intrise di storia, tinte da una decadenza graziosa, perfetti scenari per trame machiavelliche come il lusso di un’aristocrazia antiquata. Mi è venuta, insomma, voglia di scrivere ciò che di norma aborro.
Ironico, no?


A proposito delle personcine a cui penso con piacere, apposta, per rallegrarmi la giornata, fra qualche settimana avrò qui come ospite un gruppo di tali creature – ma ve l’ho già detto. Nel frattempo il gruppo si è ampliato, e io potrò assistere a una delle cose che più socialmente adoro: far conoscere tra loro persone che mi piacciono. Sarà la mia piacevole serata con amici bevendo birra prolungata per qualche giorno.

Divara e altri sogni&incubi sopiti.

Treno, galleria.
Non so quando posterò ciò che sto scrivendo. Oggi è il 1° giugno –
il giorno seguente all’esame.
Ho preso 29, creature – ho preso 29 anche se ne nella traduzione avevo preso 18. Non so come ho fatto a prendere 18 nella traduzione. Intendo: nel saggio scritto subito dopo ho preso 28. Ok, odio tradurre, ma tra un 18 e un 28 c’è di mezzo la differenza tra due persone. Psicopatia? Comunque, la docente ha deciso di ignorare quel 18, poco indicativo secondo lei delle mie capacità, e mi ha dato 29.

Ho aperto questo file, denominato “lj”, perché sono di nuovo su un treno.
E potrei adesso scrivervi:
Ho preso 28, creature – ho preso 28 anche se l’assistente, che mi ha interrogato, mi aveva dato 26.
Ma poi la docente che tiene la cattedra, quando mi sono alzata, mi ha chiesto quale voto avessi preso. 26, le ho detto, perché non ho saputo rispondere a una domanda causa vuoto – rimuovo in fretta liste di tipologie di testo arbitrarie. La docente ha detto all’assistente di mettermi 27 (sul libretto su cui l’assistente aveva già scritto il voto) – no, 28, ha detto, mi mettesse a 28. Me lo meritavo.

… E lo riprendo in mano, a casa, di notte.
Il Dio Che Ride non vuole che io scriva su treni.
L’altro giorno sono stata interrotta da un controllore che mi ha eletto ad aiutante-di-vecchietta-zoppa-con-trolley, che ho aiutato con il bagaglio nel cambio del treno e che poi ha mi ha deliziosamente intrattenuta con i suoi commenti cinici da milanese d.o.c.
Ed eccoci qui.
Stavo per scrivervi qualcosa circa quei voti.
Stavo per scrivervi:
Beh, creature, se entraste nella mia testa vedreste – nella smoderata sincerità che ho con me stessa – che esistono solo tre voti:
1) 30 e lode
2) 30
3) Il/la docente e io che abbiamo idee troppo contrastanti e quindi vengo sbattuta fuori dopo aver urlato un’invettiva ideologizzante (mai successo).
Il 30 è la base e la lode il buon voto. Tutto il resto è sconfortante. Quindi, il 29 e il 28 sono sconfortanti (il 29 meno, dato che rinomatamente gli esami di lingua inglese sono puttane).
Non posso pretendere che qualcuno mi capisca. Non mi capisco neanche io. Forse i voti vengono dati così a caso (perché gli esami non esaminano quel che dovrebbero) che non vi confido. Mah? Mah.


Stanotte ho fatto un sogno erotico di un’intensità inaudibile che aveva come protagonista Divara rediviva.
Divara rediviva è Jael Phelps.
Jael Phelps è la ragazza sulla destra nel video che vi linkai tempo fa – quella dal sorriso e dalla risata celestiali.
Quella che non è bella ma è meravigliosa.
Quella che, nel frattempo, ho addato su Facebook, chiedendole se potevo porle delle domande. Mi ha spronato a farlo. La prima domanda teologico-epistemologica è stata posta, ma Jael non mi ha ancora risposto – mi chiedo se mi abbia forwardato a nonnino Fred.
Non le ho posto una domanda teologico-epistemologica per metterla in difficoltà. E neanche perché voglio diventare parte della Westboro Baptist Church.
Mi sono dannata per cercare di spiegare perché io adori questa donna, e non ce l’ho fatta. Sparerei a chiunque la relega facilmente nel ruolo di fanatica traviata da un gruppo di invasati – quindi, come al solito, sparerei al 95% di voi. Beninteso, non vi sparerei perché reputo tale facile catalogazione un insulto all’analisi e all’applicazione dell’intelligenza (quella che fa ragionare con logica, non quella di chi si sente intelligente perché ripudia Dio pensando che il mondo sia diviso in dementi religiosi e in ragionevoli tutti-gli-altri), ma perché Jael è sopra a tutti voi. Non perché sia più intelligente, meglio illuminata da Dio o chi per lui, o perché sia – in generale – un “qualcosa” che possa essere paragonato a ciò che compone le vostre personalità.
Jael è sopra a tutti voi perché ride. Il Dio Che Ride apprezza ciò, ovviamente. Il Dio Che Ride, Jael e Rimbaud mio ospite condividono questo ridere di cose senza darsi noia di spiegare cosa li faccia ridere.
Ora, è molto probabile che io abbia una cotta concettuale per Jael perché, da brava cinica da fumetto, sono entrata in quella fase in cui reclamo una purezza perduta. Può darsi. L’idea di una purezza facile, ossia della purezza di un Eden che non viene messo alla prova da niente e tende quindi più verso la beotitudine che verso la beatitudine, mi annoia. Mi sa di bidimensionalità.
La chiesa a cui Jael appartiene, invece, vive in un mondo creato da un Dio collerico e minaccioso, in cui il 99% della popolazione si scaglia contro di loro. Andate sulla pagina Facebook di Jael e leggete i commenti che le vengono lasciati, per farvi un’idea. Ma tanto potete immaginarli. Li potete immaginare perché anche voi molto probabilmente li fareste.
Ho bisogno di una purezza irriverente. Prendo Jael e mi rendo conto del fatto che è ciò di cui avevo bisogno per Pater Noster, un racconto vecchissimo nato da un sogno e che ho ripreso in mano da poco. La infilo in Pater Noster e lei diventa simbolo massimo del Nemico e oggetto bramato dal protagonista al contempo. Jael che è uno strumento affilato, e farà rilucere l’ideale che promulga. Questo in lei rimiro, non l’ideale. Così le scrivo con gentilezza e rispetto la mia domanda teologico-epistemologica, insinuando una briciola dell’unico peccato che la sua chiesa non ha estirpato: la vanità.
Perché, ricordate, i membri della Westboro Baptist Church sono i giusti, mentre voi andrete all’inferno.
Così scrivo a Jael che scrivo proprio a lei perché è in lei che, più che in ogni altro membro finito in un video, vedo Dio. In lei. Non nel decrepito e onorato Fred. Non nell’alphawoman del gruppo, Shirley. Non in Megan, l’amica che tanto adora, più vecchia di lei.
No, il Dio (Che Ride) è in Jael. È nel modo in cui sorride, nelle labbra e negli occhi, e glielo scrivo.
Non perché voglio che la vanità la faccia tentennare per poi distruggerla. No. Vorrei che crescesse in lei fino a farla divenire luminosa come un profeta auto-eletto – con il mio zampino.
… Ma Jael non mi ha ancora risposto, e mentre attendo – da cinico che si dà alla follia della ritrovata purezza – faccio sogni erotici con Jael, in cui tutto il picco erotico è il modo in cui ride mentre lascia che mi sieda così vicino a lei e le cinga la vita con un braccio.
Forse ho dato all’ironia un ruolo un po’ troppo centrale nella mia vita.
O forse sono una vecchia pervertita.

Nel frattempo, per immedesimarmi in me stessa, organizzo la mia vita in modo da ospitare fanciulli e fanciulle (tutti maggiorenni, autorità, da più o meno tempo) accomunati dall’essere deliziosamente desiderabili. Pregusto l’averli zampettare per casa nel caldo luglio, ospiti miei ma liberi e spronati a sentirsi a casa propria, perché li voglio deliziosamente a proprio agio, liberi di essere quel che sono fin nel più secondario, infinitesimale gesto. Pregusto le forme dei loro corpi contro i miei mobili e il fluire dei discorsi – perché, coevi e posteri, queste creature hanno una bellezza da romanzo, ossia quella esteriore che fa da simbolo a quella interiore. Oltretutto, sono delle creature perverse polimorfe. Serve altro? Ah, sì: leggeremo ad alta voce Rush in Peace.

Rush in Peace procede. Questa sera sono state scritte altre cinque pagine a quattro mani, tra cui un pezzetto che doveva completare il 34° capitolo, e così siamo al 35°.
Nel mentre, mi sono imbattuta in V, una rara creatura che sta scrivendo un romanzo cyberpunk (Cedimento strutturale) a quattro mani con un amico. È una creatura eccezionale perché sta portando avanti un massiccio lavoro di marketing per poter poi vendere l’opera finita (a settembre), la quale è la risposta a un altro must: trovare ogni anno un modo di racimolare soldi da dare in beneficenza. Quest’anno è toccato a un romanzo anziché a una cena o a uno spettacolo teatrale. E questo – il fatto che il romanzo sia in parte il mezzo – mi fa sorridere. Dona al tutto una certa nonchalance.
V è anche una creatura simpatica, e scommetto che – di persona – è una di quelle persone che definisci “carismatiche”.
V ha anche un occhio di falco ed è stato eletto B-reader di RiP – ma questa è un’altra storia. È la storia che vuole che i miei collaboratori siano, di fatto, professionisti già fatti e finiti. Ho, insomma, dei padrini di cui vantarmi. Devo e voglio vantarmi del fatto che siano stati così tanto coinvolti da RiP, perché i giudizi che più tengo in considerazione sono quelli delle persone che stimo.
Nel frattempo, RiP è giunto alla soglia di 50 fans, a cui se n’è aggiunto uno che ho conosciuto dandogli del maschilista retrogrado stupido. Poi dicono che la sincerità non premia.
Ho anche fatto due passettini – due contati – per passare alla fase di divulgazione di RiP. Perché per ora – esclusi quei due passettini – mi sono veramente poco data al cercare gruppi in cui spargere la voce, preferendo dedicarmi ai singoli.
Da una parte so che un “like” in più alla pagina, anche se non sentito, non fa che aiutare il progetto. Dall’altra, quando ho visto che un tedesco si è unito ai fans, ho alzato un sopracciglio.
Fatto sta che non ho ancora chiesto a nessuno di apporre il suo “like” alla pagina di RiP per aiutarmi. Ho chiesto, per aiutarmi, di dare un’occhiata alla pagina e, se ispira, di aggiungersi alla lista di fans e chiedermi i primi 21 capitoli da leggere. C’è una sostanziale differenza in quanto a sbattimento tra la prima e la seconda opzione, ne sono cosciente – e sono cosciente del fatto che la seconda porta semmai a un’evoluzione molto più lenta. Lo so come so che un centesimo dei lettori leggerebbe questo blog se chiedessi, come controparte, di lasciare un commento.
Fatto sta, creature, che devo prima finire di scriverlo. Finché non l’avrò fatto, temo, non saprò che voglio farmene. Nessuno mi corre dietro, e così posso concedermi il lusso di contare sui singoli lettori che apprezzano e quindi fanno circolare la voce. È il lusso della voracità di un feedback trasparente e “sincero”. Ho ripreso in mano RiP sentendomi entusiasmare dal fatto che era stato iniziato senza vincoli – nessun pubblico da compiacere, nessuna regola di genere da seguire in vista di un compenso – e quindi non voglio che RiP si sottometta ai meccanismi del marketing mentre lo scrivo. Lo rovinerebbe, credo.
J, davanti a una birra e un bicchiere di vino (la prima mia e il secondo suo – ma, ovviamente, dato che non esistono preconcetti, a lui era stata servita la birra e a me il vino) mi fece notare come RiP fosse un’opera unica. Ora, questo può essere un bene o un male. Può essere un male come è un male non appartenere a nessuna minoranza vivendo in un Paese il cui multiculturalismo dà diritti in base alla minoranza a cui si appartiene (ciao, Inghilterra). Può essere un bene perché viviamo benedetti dal paradigma dell’unicità, almeno in astratto.
So che non voglio – e finora non mi è successo – vedere RiP masticato da commenti che ne valutano il grado di fantascientificità. Da quando leggo anche letteratura di genere – perché voi, maledetti amici della sottoscritta, scrivete spesso di genere e quindi per seguire voi seguo il genere, l’odiato genere, terreno che raccoglie il più lurido ozio del lettore – inciampo spesso in recensioni che spiegano come mai un’opera X sia fallimentare come giallo/noir/fantascientifico/rosa/whatever. Mi agghiaccia. Cioè, penso un esorcizzante “Chi se ne frega, di grazia, di quanto abbia seguito le regole di un genere?” ma sono agghiacciata.
Mi viene alla mente C e il suo mal tollerare questa società in cui tutti si sentono scrittori e critici. Scrissi a C che vivevo in un interstizio, lo stesso che occupa il suo pensiero: sono fermamente per la posizione che vuole che ognuno abbia il diritto di sviluppare il proprio potenziale, anche il serial killer pedofilo comu-nazista, al punto che odio dover mettere quell'”anche”, ma al contempo rabbrividisco al vedere Emeriti Sconosciuti parlare alle masse come fossero Oracoli della scrittura e della critica.
Mi fa mettere me stessa in questione, chiedendomi se non lo faccio anche io. Dopotutto, se qualche tempo fa scrissi di come volessi vedere Rimbaud pisciare addosso agli scrittori della domenica che si elevano a Gibson del 2011, evidentemente anche io salgo su una qualche forma di altare. (Pulpito, anzi.) Lo faccio anche io? Spero di no. Ma piscerei sugli scrittori della domenica che si elevano a Gibson del 2011. Non ho buone motivazioni da addurre, in realtà, se qualcuno mi chiedesse perché ho cosparso di urina un aspirante scrittore. So che piscerei addosso anche ai letterati che scrivono con alto tasso di Letterarietà e snobbano gli scrittori di genere. Poi però piscerei anche addosso agli scrittori di genere che liquidano le sfaccettature dell’italiano con un “Deve essere comprensibile” (frase stimabile in bocca a Picasso, ma non in bocca a chi sbaglia congiuntivi e fa concordanze a senso mentre parla – checcazzo, un po’ di sincerità intellettuale). Piscerei addosso a un po’ troppa gente per trovare un dato che accomuni tutte queste opere. C’è differenza tra il pisciare addosso all’autore e all’opera? Brucerei gli autori ma non toccherei le loro opere, questo è il punto. E non li brucerei per aver scritto, ma per come giocano la propria parte di scrittore. O di critico. O di whatever. Brucerei anche gli avvocati che danno alla sigla “avv.” il compito di fare da garante del loro valore.
Comunque, pisciatoi e roghi a parte, tengo al fatto che RiP sfacciatamente non badi al proprio tasso di fantascientificità. Adoro la fantascienza, adoro la coerenza, e questo mi fa sbattere a morte per creare un prodotto che sia buono e controllato. Voglio che il critico sci-fi della domenica che l’approccia si dica che RiP è fuori genere. Basta un passettino, al di fuori dal genere, quel che basta per non farlo sottomettere alle griglie che catalogano le opere.
È che, creature, inorridisco al vedere come certi libri siano valutati al 100% sulla base della propria appartenenza a un filone. Libri scritti in modo esemplare liquidati perché hanno mal inteso il genere, e obbrobri che si aggrappano a fatica al minimo sindacale elogiati per essere esattamente ciò che il pubblico di quel genere ama.
Amate Gibson perché è cyberpunk o perché è Gibson?
Offrite la cena a vostra moglie perché è vostra moglie o perché la amate?

Il 51° fan di RiP è stato dalla sottoscritta offeso perché asseriva, sentendosi cavalleresco, che non avrebbe mai colpito una donna, neanche se questa fosse stata alta 1,90 e fosse stata addestrata a uccidere. Gli ho dato del detentore di pregiudizi e del cretino. La prima offesa si riferisce al suo attenersi alla sottaciuta generalizzazione “le donne sono più deboli”, il secondo al fatto che quest’uomo – che pur mi sta simpatico – vive con la possibilità di crepare ucciso da una donna minimamente addestrata. Non accadrà, molto probabilmente. E purtroppo i libri non possono spararvi se li giudicate con la generalizzazione sbagliata. Non possono neanche bruciarvi o pisciarvi addosso. Per questo non piscerei addosso a un libro né lo darei in pasto a un rogo.

Di Streben, Sehnsucht e altre parole-slot.

Dovrei ingrassare di qualche chilo per poi tagliarmi una fetta di coscia e darla in ringraziamento a J per… esserci, tendenzialmente. Il fatto che mi aiuti de facto montando video è solo la punta di un iceberg che vorrei tanto mostrarvi, ma dovrei scrivere a mano “grazie” per una decina di fogli protocollo, e comunque non sarebbe abbastanza.
Mi sento quasi in colpa, a volte, perché J ha tanti lettori capaci di godere nel dettaglio delle competenze personali che lui travasa nei libri che scrive. Io no. Io sono l’ignorante che gli chiede di dare un occhio alla scena appena scritta di Rush in Peace, quella in cui ci sono due cyborg che in teoria dovrebbero agire ottimizzando i tempi e prendendo le migliori scelte in una situazione di tensione – quei due sono cyborg, con addestramento militare, io sono una civile senza esperienza e quindi chiedo a James di usare le sue (da altri profondamente comprese e) adorate competenze per dirmi se ho scritto cazzate ingenue. Perle ai porci? No, confido a fondo in Rush in Peace, ma ciò nonostante a volte un po’ in colpa mi sento. Per vanità, forse.
Chi mi conosce da abbastanza tempo mi avrà visto, di tanto in tanto, sciogliermi in uno dei miei delirii di gratitudine. Ho una gratitudine strana, totalizzante, una gratitudine che mi rende felice. Sono felice di poter essere grata, mi fa sentire fortunata. E lo sono. Non semplicemente perché ho un esperto di settori che mi serve utilizzare in Rush in Peace come advisor, ma perché questo esperto è anche una persona con cui amo spendere le pause cazzeggiando mezzo commenti nelle pause libere.
Ci sono persone, creature, che ti fanno amare il mondo in potenziale. Quelle persone sono potenzialità – sono nuclei saldi in sé e ben distinti da te, ma che per come si sono realizzate ti fanno pensare che ne vale la pena. Vale la pena di lavorare su se stessi e di guardarsi attorno, a occhi spalancati, per cogliere simili perle. Per questo la mia gratitudine sfiora il misticismo.
Conosco diverse persone così. Le conoscete anche voi, perché le ho sovente nominate. I miei delirii sui fortunati momenti spesi con e grazie a VB ne sono un esempio. Scrivo Rush in Peace con una di queste persone – e stasera, mentre scrivevamo, avrei voluto esprimere mezzo Facebook come mi sentivo, ma non trovavo le parole – o, meglio, le parole le stavo scrivendo in quel momento con Noes, e le leggerete seguendo Rush in Peace.
C’è un motivo per cui considero Rush in Peace un miracolo.
No, ce ne sono diversi.
Qualsiasi cosa scritta da Noes per me è geniale – e gongolo nel sentire lo stesso feedback uscire dalle bocche di persone che l’hanno letta. Noes è fresca. Ho sentito innumerevoli volte blaterare di prose fresche, capendo una volta su cento a che si stessero riferendo, e il paradigma di tale freschezza rimane Noes. Noes che sa scrivere con una prosa semplice concetti non scontati. Il suo non è un genio letterario, è piuttosto uno Genie goethiano che le galleggia sopra la testa, le sta sotto la retina, permettendole di vedere il mondo in modo particolarmente… tridimensionale. E a ciò si aggiunge il fatto che Noes è magicamente refrattaria alla retorica – non dice stronzate inutili, insomma.
Rush in Peace è un miracolo perché dopo anni, in cui io mi sono, pare, impegnata per ammuffire assieme alla mia sempre più involuta prosa, una prosa che ha tentato di suicidarsi usando se stessa come cappio, e Noes ha a malapena scritto, ci siamo ritrovate subito in sintonia. Ci siamo interfacciate senza scarto alcuno. Come spiegarvi quel che intendo?
Devo spiegarvi come io e Noes scriviamo.
Dirvi che c’è un canovaccio, di base, ossia il decidere più o meno la trama – e questa è stata decisa anni fa – e quindi decidere più o meno come si aprirà e chiuderà una scena.
Ciò fatto, apriamo un documento condiviso su Gmail e scriviamo alternandoci. La guardo comporre le frasi lettera per lettera, in una mancanza di incertezze e pudore che bacio con gratitudine. Le scrivo, prima di una scena d’azione che m’impegnerà le sinapsi al 100%, che sto soffrendo di ansia da prestazione, e poi le scrivo sotto agli occhi i miei tentativi.
Per questo, creature, blatero con tanta arroganza che bisognerebbe parlare come si scrive e viceversa. L’unica cosa che rende Rush in Peace uno “scritto” è il fatto che è scritto.
Sto studiando per un dannato esame le caratteristiche di scritto e parlato. La naturalezza del primo sul secondo – la naturalezza che c’è in Rush in Peace, a malapena pensato prima che le dita compongano parole sullo schermo. Il controllo dello scritto sul parlato – e RiP, per essere scritto, necessita di mancanza di controllo, unico modo di cestinare ogni retorica.
Odio la retorica, creature. Odio la retorica e odio i generi ed è la stessa cosa. Odio la retorica e odio i pregiudizi ed è la stessa cosa. Scivolo nelle zone in cui scrittura e filosofia e mistica si sovrappongono, e lì rifletto.
C, la sua presenza, mi ha spronato a farlo, perché con C posso farlo senza sentirmi vittima di un debilitato delirio solipsista. Voglio dire, mal che vada siamo perlomeno in due. (Più un sacco di gente morta.)
Non vedo l’ora di incontrare C – altra persona che mi permette di viziarmi con la mia gratitudine – ma non ho molto da aggiungere al riguardo. Potrei uploadare un video della sottoscritta in uno dei momenti di beatitudine causati da un pensiero legato a C, e questo sarebbe tutto. La felicità sa essere incredibilmente noiosa, a volte. L’entusiasmo rende ridicoli. Godo dell’esere ridicola perché mi ricorda la mia fortuna.
Mi trovo talvolta, in questo periodo, nell’ebbra condizione del bambino che si sente superiore a tutti voi perché ha appena ricevuto in regalo esattamente il giocattolo che voleva. Non gliene può fottere di meno del fatto che quel giocattolo sia fatto in serie o meno, se sia un esemplare unico o l’ennesimo clone: quel che conta è l’emozione del marmocchio, non ciò che la causa.
Se ciò che conta fosse la causa, allora mi basterebbe mettervi tra le mani le parole scambiate con J, con Noes, con C, con VB, con altri – e voi com-prendereste. Ma non è così. Guardare è interpretare – sono inciampata in ciò navigando le righe di un saggio epistemologico sullo status della scienza – l’ennesimo saggio che mi fa pensare, quando mi trovo davanti a un passante idolatrante La Scienza, che “Non ho voglia di mettermi a spiegare. Leggiti quel libro.” (sapendo che non verrà letto – non lo farei neanche io, probabilmente – ognuno ha le proprie priorità, e cerca quel che vuole trovare).
Ungaretti, se non erro, scrisse che il poeta è colui che avvicina concetti lontani.
È quello che dovrei fare, agglomerare stati di entusiasmo e ilarità di solito sconnessi, per rendervi il mio umore.
Ma sono pigra.
Ho deciso, pare, che per questo periodo mi accontenterò di pensare che siamo tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri – il che, tradotto, significa che non sto tendendo al più lontano degli esseri umani, accontentandomi di quelli che mi sono al momento vicini. Mi do all’elitarismo, insomma, senza aver deciso – né volendolo fare – quali siano le caratteristiche che dovrebbe contraddistinguere quest’elite di cui amo circondarmi. I sensi me li fanno accomunare, e loro stessi mi mostrano lati che mi aiutano nel vederli simili, e io nulla faccio per smontare quello che l’impressione mi costruisce alle spalle.
Non potrò farlo per sempre.
Sono troppo megalomane per accontentarmi di un’elite.
Come spiegarvi il perché?
Vorrei che cercaste una di quelle canzoni che vi fanno vibrare dentro qualcosa, ogni volta, anche e non sapete perché, soprattutto perché non sapete perché.
Vorrei che la faceste partire, e intanto richiamaste alla memoria il ricordo di attimi che, quando li avete vissuti, vi hanno fatto pensare che erano oltre al tempo. Oltre all’attimo in cui vi hanno travolto e sconvolto. Più eterni di una vita – l’unica forma di eternità che vi è possibile concepire, ma basta e avanza.
Parlo di Streben, per chi può intendermi, e di Sehnsucht al contempo. Quel desiderare ardentemente un qualcosa che è davanti a voi nel tempo ma di cui avete nostalgia al contempo. “Nostalgia” perché sentite che vi è dovuto.
(Non capirò mai quanto questo dispotico pensare “Mi è dovuto.” sia diffuso. In me è così forte da farmi pensare, a volte, stuprando Nietzsche, che chi non lo pensa sia un inetto da schiacciare con disprezzo. Perché, intendiamoci, il fatto che mi dia dovuto non implica che io abbia il diritto di lamentarmi se non l’ho – ho il diritto di farlo, certo, ma a che pro? – implica solo il dovermi sbattere per (ri)conquistarmelo, finalmente.)
Parlo del desiderare qualcosa con un’intensità tale da non poterne vedere i limiti. Di un vostro desiderio che sia più grande di voi.
Può essersi manifestato in mille modi diversi. Nell’inquadratura di un film. Nella foto di un volto, di una mano. Nei tratti di un eroe artificiale. Nel ritmo di una poesia. Nell’odore di un(‘)amante. Nella velocità di un proiettile. Non importa.
Quel che conta è che sia più grande di voi, e di tutto ciò che potete concepire – ed è per questo che vi travolge, sballottandovi tra una muta contemplazione passiva e che subisce grata e la voglia, da far prudere le mani, di muovervi con e in quella cosa.
Per questo non posso farmi bastare a lungo un’elite.
Perché voglio sempre qualcosa che sia più grande di me, e quindi necessariamente non concepibile al momento, neanche dalla parte più elitaria della mia gemente testolina.
Ho passato, credo – anche se non voglio ricordarli e quindi li dimentico con indicibile precisione – anni in balia di tale Streben. Si nascondeva dietro a ogni cosa – a un toast cotto a puntino, a uno bruciato, a un volto sorridente, a un corpo dilaniato. Non ho messo per anni piede su un palco perché quello a disposizione non era mai abbastanza grande, e quindi mi buttavo su palchi anonimi a occhi chiusi, a memoria spenta, per poter mettere tutto di me in gioco tranne la cecità dell’entusiasmo.
Non parlo di pubblico, oh pubblico. Era il palco interiore che andavo cercando.
Da qualche parte lessi – ricordassi dove – che i Gemini sono quella sorta di persone sdoppiate: una metà recita sul palco, mentre l’altra osserva dalla platea.
Avevo bisogno, credo, di raffinare l’udito dello spettatore e la voce dell’attore.
Questo fa sì che, oggi, io sia giunta ad avere una di quelle soddisfazioni che ci si aspetta che alla mia età una persona abbia racimolato. Una certa pienezza di sé – non nel senso di arroganza, ma di sostanza. Essere in sé.
Un Qualcosa che mi permette di essere in balia dello Streben anche mentre contemplo me stessa, e non solo in passiva contemplazione dell’Oltre. Immagino si debba passare dal non temere altra cosa più di se stessi. Immagino che ciò accada nel momento in cui ci si è divaricati abbastanza interiormente ma non si è ancora sviluppato un bastevole controllo della propria immaginazione, e per “immaginazione” intendo “concepire”, e il concepire mi riporta alle potenzialità delle persone e alla gratitudine.
Ho imparato, nel frattempo, a far coesistere il lato critico-dissezionatore e quello titanico alla Goethe. Ho imparato, intendo, a sapermi dire che tutto questo delirare è Nietzsche della domenica senza farmi abbattere dal mio dissezionare.
C’è qualcosa, nel profondo, che mi disturba. Mi domando cosa possa disturbarmi, mentre mi beo nella contemplazione del potenziale, dei potenziali. La megalomania si accompagna bene alla cecità, perché lo sguardo a 360° mi manca, e non vedo cosa non vedo.
Ho il paranoico timore di avere un tallone d’achille invisibile. Di scoprire troppo tardi che tanti obiettivi raggiunti siano azzerabili da un’infima, secondaria, becera cazzata che ho smesso di considerare.
Mi sento vecchia perché temo senza passione.


Mantrapokalypse, o: un pezzo composto anni fa da Peppe “War” Frana per Rush in Peace:

Amo avere certe menti dalla mia parte – altro senso della mia gratitudine.

Di missionari, assedi e corti letterarie.

Chi non muore si rivede, eh?
Sono morta innumerevoli volte, nella prima metà di giugno, dispersa tra bassi colli laziali, oziosi e schiacciati dal sole. Ma in una casa protetta da mura secentesche, a giugno, il tepore è sempre tenuto a bada da un’atmosfera cristallizzata nel torpore che compone il passato.
Sono morta per la gioia delle orecchie dei vicini, prendendoci gusto. Le mura assorbono ogni gemito, ma una finestra aperta spezza il limbo.
Tra una doccia e una cena, ho riscoperto l’assoluta semplicità delle cose.
Scopo lesbicamente a missionario e a smorzacandela (non sapevo si dicesse così fino a un minuto fa – che nome teneramente ridicolo), ossia nei modi più beceramente banali ever. Ora, non è che io voglia descrivervi in che posizioni sessuali scopo (anche se lo sto facendo), volevo solo condividere l’assurda banalità di ciò che per definizione non dovrebbe esserlo. L’unica chicca per gli appassionati di fisica consiste nel fatto che scopo a missionario e a smorzacandela senza l’ausilio né di dita né di strap-on e godendo come riccio (è bello essere bisessuali: non si può essere tacciati di non aver provato l’altra alternativa, e quindi di non sapere cosa ci si perde). Mi sono sentita così spesso chiedere “Ma come scopano due donne tra di loro?” che adesso che ho una risposta così semplice non posso che goderne interiormente. So che tal risposta non risponderà a un beneamato cazzo, per usare un francesismo, perché se lo facesse io non avrei motivo di spiegarvi quanto banale so essere a letto.
Volevo solo, ecco, per l’ennesima volta, farvi riflettere su quanto poco del sesso lesbico (reale, non quello ri-settato per essere venduto a un pubblico maschile) si sappia – così poco che molti di voi si staranno ancora chiedendo come faccio a godere come un riccio in quelle posizioni.
(Ma poi… Perché si gode come un riccio?)

Tra una morte e l’altra ho fatto diverse cose, docce a parte.
Ho fatto la turista dal primo all’ultimo giorno, beandomi in questa mia condizione. Ho visitato una portaerei infilandomi dove non avrei dovuto, ho mangiato carne e funghi fino a scoppiare, ho messo in soggezione commesse con il mio troppo formale approccio di cliente, ho rincorso gatti che non volevano farsi accarezzare, ho avuto un calo di pressione alle terme, ho trovato il colore che stavo cercando per il gonnabe studio, ho commentato vecchiette basculanti con N e ripescato ciambelle al plasma con J, ho fatto da attendente a VB (nel senso che mi lasciava a casa a farmi servire Manman, per cui ho pulito tappeti e trascinato sacchi della spazzatura piombati sotto al sole cocente), mi sono fatta dare dell’ubriacona in modo poco sottile, ho battuto a tappeto profumerie alla ricerca di profumazioni al gelsomino e al tiglio, ho chiesto a un polacco di croci di ferro e tante altre cose.
Per cinque minuti ho anche contemplato me stessa fare la stupida in treno con VB che, in modo non meno beota, giocava con l’ipotesi di toccarmi le tette. Ora, che io e VB si sappia essere stupide in modo encomiabile è risaputo (avete presente I soliti idioti? Ecco, esattamente così), ma mi mancava il realizzare quanto sappiamo essere stupide come una coppietta appena sbocciata che passa il tempo con dispetti vezzeggiatori e corteggiamenti divertiti (non prendete quest’ultima mia frase per pensare che siamo una coppia, maliziose creaturine). Gliel’ho anche detto: per diventare uno stupido cliché di ragazzina flirtante non è che mi servisse molto, a quanto pare, mi bastava un essere di sesso femminile e dal gender incerto con cui farlo. Insomma, io e VB persistiamo con il rapportarci l’una con l’altra come se fosse il primo giorno (e di mezzo c’è una convivenza di mesi con spazio vitale risicato). Ironico, isn’t it?
Va accostato al mio ruttarle in faccia mentre mi aiuta a indossare una collana. Lei ride e partoriamo questa creatura mitologica che dovete immaginare come un tenerissimo batuffolo di pelo con due enormi occhioni che scioglierebbero anche un reduce del Vietnam, una di quelle creature che causano in reazione degli “Aw!” commossi, e che si esprime ruttando. Gliene ho disegnato uno, rutto incluso, e l’ho fissato con del nastro adesivo sulla porta come Welcome! per quando fosse tornata dal lavoro.
Ho anche scoperto di condividere con VB il gusto infantile per la lotta fine a se stessa. Ci siamo rotolate sul letto dandocele fino a impregnare di sudore le lenzuola, per poi litigare per il suo infelice dirmi – a posteriori – che a un certo punto avrebbe potuto mettermi sotto ma non l’ha fatto, e ho dovuto spiegarle che non ce l’avrebbe fatta neanche se avesse tentato, e lei ha controbattuto che ero senza fiato e quindi ce l’avrebbe fatta, ma le ho sottoposto il fatto che non ero così tanto senza fiato e via discorrendo fino all’ennesima cena al girarrosto a cinquecento metri da casa, quello che sta per adottarci, quello che ci offre home-made biscottini e che alla quarta volta ha chiesto: “Vi porto direttamente il mezzo litro di vino?”
Sono stata bene, e i giorni sono volati. Sono volati anche se qui avevo lasciato incontri e progetti in sospeso, e che ho messo in stand-by a malincuore.
Il fatto è che sto bene con VB, cazzo.
La vedo per tre o quattro secondi, alcune mattine, la sagoma in giacca e camicia bianca pronta ad andare al lavoro, foulard attorno al collo. Sono troppo assonnata per definire i contorni, quindi c’è solo quest’idea di lei – evanescente apparire che mi sussurra un “buongiorno” posando la tazza di caffè bollente, con un sorriso soddisfatto-compiaciuto mentre mi guarda, e la guardo mugugnando sonno e soddisfazione-compiacimento. Reclamo un saluto meno incorporeo e la sagoma si avvicina, mi deposita un bacio da qualche parte con tracce del suo odore, poi svanisce e io ripiombo nel sonno.
Vorrei, come spesso mi capita, condividere quel che il mondo mi dona. Vorrei, con le parole, ricrearlo per farvi com-prendere. Ma la lingua mi tradisce. I cliché non accorrono in mio aiuto. Dovrei chiamare in causa troppe cose discordanti, e sarebbe non dall’unione, né dalla fusione, ma dalla negazione di una da parte dell’altra che nascerebbe quel che vedo in quelle mattinate insonnolite.
Dovrei battere due dita sulle spalle di un galeotto di Genet e chieder lui di voltarsi per un secondo – quei secondi che Genet dilata all’infinito – quello in cui puoi inquadrare un sorriso che va formandosi, un sorriso rubato a un qualche interstizio. Al di sotto, sotto la maglia lacera di un marinaio che si apre in bottoncini sul petto, dovreste sentire il lieve gonfiarsi dei pettorali – non è la loro durezza, ma la loro massa su cui poso la fronte – poi dovreste chiudere gli occhi e riaprirli nelle vesti di un qualcuno che ha bisogno di una pausa di conforto e la trova in un seno morbido e totalizzante, in cui soffocarsi e con cui giocare come bambini, eppure senza tirare in causa triti e ritrici freudiani cliché materni. Il suo polso, invece, è saldo e fragile al contempo: si piega con la solida grazia di una statua greca, un dio della determinazione colto nella propria adolescenza. Così è anche il collo – i tendini che vibrano al massimo della tensione, la testa buttata indietro – la testa buttata indietro di un eroe che cerca di sollevare un titanio e quella indietro reclinata di un’evanescenza klimtiana che nel proprio apparente abbandono serba saggezze che pesano come macigni.
Avrei bisogno di un’altra lingua, nata in un altro dovequando, in cui certi opposti non sono tali e in cui “accogliente” e “conquistatore” sono sinonimi.
E dovrei anche aver smesso di darmi a certe beate contemplazioni da passione appena sbocciata – ma, per fortuna, posso ancora ridicolizzarmi.

La Manman di VB mi adora. Non chiedetemi come ciò si coniughi a farmi portare sacchi della spazzatura e altri pesi: ho eseguito il tutto come se fosse una prova da superare, e chissà se lo era.
Comunque, la Manman di VB mi adora e VB stupisce, perché di solito quella creatura dall’ironia non trasparente preferisce farsi i fatti propri. Per lei ho intrecciato fili di ferro mentre lei per me confezionava una borsa (di cui presto andrò fiera).
Sono riuscita anche a conquistare la gatta, di VB, ammasso di ossa e peli aggrovigliati che non voleva ammettere di morire dalla voglia di essere coccolata da me. Povera illusa gatta.

Ho letto.
Ho letto James (La coda del diavolo), che mi ha tenuto compagnia in un lungo viaggio in treno e per una lunga notte solitaria, sorridendo a battute che potevo immaginare dette dalle sue labbra nel tono che ora so riconoscere come suo.
Ho letto The Cellist of Sarajevo senza capire cosa pensassi di quella prosa, ripiombando in un tema studiato qualche anno fa (oh miei amati assedi).

Ho scritto.
Ho scritto Rush in Peace, ovviamente, e vi basta andare sulla pagina su Facebook per avere un assaggio delle ultime parole partorite.
Abbiamo 39 utenti, al momento – e godo per ognuno. Cerco di mantenere la pubblicità a un livello non invasivo – odio spammare gli altrui walls, le altrui caselle di posta, diffondere PMs non richiesti – e questo rende quei 39 utenti corposi. A una lista di contatti di 22 persone su gmail vengono spediti gli aggiornamenti – siamo al 19° capitolo, dal 20° in poi dovrò aggiungere i vecchi lettori (che fino al 19° avevano già letto). Non sto facendo leva su niente che non sia RiP stesso – né su me stessa come già pubblicante scrittrice, né su simpatie personali o favori dovuti. Voglio che RiP nasca da sé, tutto al presente – voglio che rimanga quel che è stato finora: un prodotto che non deve appoggiarsi ad altro.
È la libertà che si ottiene dopo essersi tolti lo sfizio di pubblicare. Lo consiglio a tutti gli aspiranti scrittori: fatevi pubblicare dietro retribuzione, così smetterete di rincorrere quest’idea. Non che io abbia deciso che non pubblicherò mai più, ma devo trovare un compromesso e posso concedermi il lusso di darmi tempo per farlo: non ho né le pressioni che ha chi deve pubblicare per sopravvivere, né quelle di chi vuole pubblicare per dimostrarsi di poter pubblicare.
È che – aspiranti scrittori, scrittori fatti e finiti e passanti – quando ancora scrivevo con l’ottica di pubblicare quasi mi sentivo in colpa nello scrivere una cosa come Gioco della rosa. Questo maledetto fuori-genere, che non commette nessun peccato se non quello di non commettere peccati prestabiliti. Fa riflettere. Mi fa riflettere la società delle etichette, in cui si investe sul prodotto dal target certo.
Ho discusso – e ne discuterò ancora a lungo – sul come alcuni libri vengano pubblicati per il semplice fatto che hanno le giuste carte per compiacere un certo pubblico. Per questo la scrittura di genere è così limitante: sono quegli stessi limiti a renderla un prodotto vendibile con maggior certezza. Sai già a chi indirizzarli – il pubblico è già pronto, non devi crearlo.
Osservo dal mio silenzio i dibattiti interni al mondo dello scrivere di genere – interni a ogni singolo genere, che lamenta il proprio essere un genere e quindi essere ghettizzato. Non è implicito? Non viviamo nella magnifica società delle pluralità coesistenti? Ma mi ricorda il pluralismo alla britannica, in cui hai diritti bonus solo se appartieni a una minoranza – quella musulmana, quella omosessuale, quella handicappata – quella action, quella horror, quella sci-fi.
Osservo dal mio beato silenzio le lotte intestine, le voci che rispondono prima di aver ascoltato, e ciò rimbalza tra le mie sinapsi assieme al mio osservare – discutendo con alcune persone nelle ultime settimane – l’italiano parlarsi addosso, urlarsi senza ascoltare l’altro. So che le due cose hanno ben poco in comune, che sono guidate da due dinamiche diverse, ma ne osservo il concomitante entrare nelle mie riflessioni.
Ho seguito brevemente un dibattito (l’ennesimo) sull’opzione e-book, e-book VS libro cartaceo, rendendomi sempre più conto di quanto sia minuscola l’Italia e di quanto sia al contempo immensa. Facebook aiuta nel visualizzare ciò che intendo. Immaginate una moltitudine di microscopici puntini che si agglomerano attorno a 8-9 punti di dimensioni maggiori: è il quadro che sto avendo del mondo della letteratura di genere (vari, che s’intersecano, dall’action al giallo alla sci-fi all’horror) in Italia. Gli 8-9 punti di dimensioni maggiori sono gli autori affermati e conosciuti, i microscopici puntini sono i lettori. In mezzo ci sono gli scrittori che si considerano della domenica e gli aspiranti scrittori, quelli che hanno cosparso riviste online di racconti e quelli che sono sbocciati da nulla, quelli dal lungo e difficile percorso, quelli che si pubblicano fai-da-te e quelli che tacciono attendendo la Grande Occasione. In questo confusionario quadro, dura a morire, rifulge la Torre D’Avorio gramsciana: appena un puntino riesce a ingrandirsi e ad attirarne altri si fa élite, poeta-vate – e abbiamo i dibattiti su e-book VS libro cartaceo portati avanti come se i puntini ingrossati fossero già una casta, dibattiti portati avanti come se fosse quel dibattito a decidere delle sorti del libro cartaceo.
In mezzo ci sono i Recensori, categoria da me scoperta da poco. I Recensori sono una razza di persone il cui hobby è, per l’appunto, recensire – sono le loro recensioni (nel piccolo come nel grande, no?) ad aiutare i puntini a ingrossarsi. Ho scoperto i Recensori perché nel mio beato limbo RiPpiano un paio si sono avvicinati a me. Ora, io sono grata a chiunque faccia commenti e critiche a ciò che scrivo, felice di rispondere a domande (sono un’opinionista speculativa del cazzo, non poco egocentrica), ma non riesco a capire la gioia di recensire (sono pessima a farlo). Mi sono anche chiesta – più come rigurgito di memento mori suggeriti dalla fiction – quale sia il potere di un Recensore. Il domandarmi quale sia il motivo e quale il potere di un Recensore, e quale sia la relazione tra le due cose, mi ha inquietato un po’. Mi ha inquietato il vedere gente recensirsi a vicenda, a mo’ di scambio di favori. Recensirsi con sbandierata spietatezza a vicenda, criticando chi non critica spietatamente (criticando alcune cose e non altre: c’è chi si ostina sulla prosa pura ignorando la coerenza della trama e chi critica il ritmo ignorando la prosa). Ho intravisto orde di riviste online, mescolate a blog, o riviste con blog annesso, il cui scopo è recensire e/o pubblicare, entrambe assieme, e che offrono gratuiti servizi di editing che promettono un lavoro professionale, puntuale e preciso (il lavoro professionale di migliaia di siti di sconosciuti – sono felice di essere stata una correttrice di bozze, perché almeno da quel punto di vista non ho bisogno di aiuto), spietato della spietatezza di cui sopra. Uso il termine “spietatezza”, ma è scorretto: è la “spietatezza” del chirurgo professionista, o che tale vorrebbe essere. Quello che rende perplessi, l’illogicità che fa concludere a un bambino che Babbo Natale non può esistere perché prova tu a consegnare doni a tutti i bambini del mondo in una notte sola, è il fatto che ogni blog/sito/rivista accettante scritti da revisionare s’erge a Vera Professionalità dettando le proprie regole contro quelle altrui, e se ognuno di loro porta la Vera Professionalità, allora quante vere professionalità ci sono?
Fa girare la testa.
Amo il mio limbo che s’ostina a non prendere parte.
Detto tra noi (cioè detto a chiunque – dovrei smettere di ricorrere alla retorica, del tutto), se ho pubblicato è stato per sbaglio. Non stavo rincorrendo scrittori. Mi ero limitata a simpatizzare con lettori di un romanzo. I lettori in questione mi sono stati simpatici e successivamente ho scoperto che erano anche scrittori, e quindi li ho letti – come si legge il libro di un amico mentre lui legge il tuo. Continuo, colpevole, a fare così – “colpevole” ogni volta che un Nome Autorevole, un Editore caposaldo, un recensore d’annata (sempre nella Torre D’Avorio microcosmica della scrittura di genere, che a volte sconfina altrove) mi ha addato su Facebook e io non avevo la più pallida idea di chi fosse (grazie, Google, per esistere). Sono di un’ignoranza vergognosa, in effetti. Tale ignoranza mi salva: non posso ricorrere all’adulare il libro di un Nome Autorevole per farmi amico l’autore. (D’altro canto corteggio scrittori che adoro e che sarei io a voler aiutare a scrivere ciò che vogliono, potessi farlo.)
Inciampando in lettori che ho poi scoperto essere scrittori ho visto l'”effetto Corte”. Lo conoscete. Chiamatelo come volete: è quella strana dinamica che fa sì che i minuscoli puntini si agglomerino attorno a un punto più grosso. È fatta di reverenze, soggezione e adulazione. È l’arbitrario trattare con i guanti un qualcuno perché è un Qualcuno di professione. È il mantenersi a rispettosa distanza nell’attesa di poter essere al suo livello e averci a che fare da pari. È moderatamente aberrante, come molte dinamiche sociali. Per legge di Murphy è controproduttivo, tra l’altro, nel senso che per esperienza è chi se ne sbatte delle gerarchie a star simpatico a chi sta in alto. A chi starebbe simpatico un cane dalla fedeltà aprioristica? (Intendo, a parte che per comporsi una Corte?)
Ma comunque.
L’Italia, si sa, ha un suo cattolico mafioso fatalismo, e ciò fa sì che io ne abbia sentite di ogni sul mondo letterario, di genere e non. Ho dovuto pure studiare l’editoria in Italia per un esame, sciorinando al docente informazione studiate su libri su una collana in cui ho pubblicato.(“Buongiorno, Prof. Secondo ciò che dice il suo esimio collega, considerando dove ho pubblicato, io scrivo paraletteratura; ma se riporto quello che asserisce l’altro suo esimio collega, da un punto di vista stilistico, sono autoriale-postavanguardista. Sono uno di quei rari casi citati a pagina 263 del manuale: a quanto il manuale dice, se mi va bene, creerò un nuovo genere, che le successive generazioni ripudieranno come io oggi ripudio i generi già esistenti. Se mi va male… Il manuale non dice nulla a riguardo. Ha qualche suggerimento?”) Ho studiato saggi scritti da Professoroni che non dialogavano con gli scrittori di cui parlavano, e parlato con scrittori che lavorano nel campo senza analizzarlo, questo campo, dall’alto. Ho il doppio handicap di studiare troppa teoria per enjoyare l’ottica dei generi, e di aver visto l’ottica dei generi troppo dall’interno per blaterare teoria dall’alto di una posizione intonsa. I Professoroni mi parlano dei perché del successo di certi Super-Uomini che riappaiono da due secoli nella nostra letteratura popolare, con uno sguardo forse fin troppo ampio, mentre lo scrittore-blogger lamenta la poca caratterizzazione dei nemici zombi nelle opere degli ultimi due anni, con uno sguardo vagamente troppo focalizzato. I Professoroni lamentano la dozzinalità delle opere da edicola senza leggerle, scoprendo magari che tra tanta prosa 4 dummies ci sono perle ingabbiate che mostrano un contorsionismo geniale, mentre gli scrittori che si sono conquistati una fetta piccola ma salda aggrediscono i Grandi Teorici lamentando la loro polverosità senza rendersi conto del fatto che è lo scrittore autoriale quello che rinnova la lingua, mentre le opere di genere tendono a essere conservative (conservative nella loro fu innovativa nicchia, ma pur sempre conservative).
E io galleggio beata nel mio limbo.
Galleggio beata scoprendo che J, in un’intervista, pone tra i suoi scrittori preferiti C (che mi perdonerà, se la strattono di nuovo qui in attesa di sapere se tale trascinarla nel gorgo delle mie riflessioni urta – è per una buona causa, o almeno spero di aver azzeccato nello scegliermela) – lo scopro tra un’e-mail mandata a J e una mandata a C, scoprendo che di entrambi apprezzo la capacità di non dividere il mondo in compartimenti stagni. J e C non hanno una beneamata sega in comune, a parte questo. Scrivono cose diverse con stili diversi con pubblici diversi di generi e non-generi diversi e con punti di forza opposti. Paradossalmente è quel loro non ragionare per generi a farmeli accomunare. Li prenderei entrambi, piazzerei dinnanzi a un camino a sorseggiare bevande calde a scelta, rimirandomeli per qualche minuto, cercando nei loro sguardi quel qualcosa che li lega l’uno all’altro come esseri umani ai miei occhi.
Il punto, come al solito, è sempre questo: l’essere umano. Quella cosa che sta a metà tra gli ideali intoccabili dei teorici e la bidimensionalità funzionale del genere. Quell’utopia che è tale perché non è un’utopia arresa a se stessa né l’iper-dettaglizzazione di un lato del Creato a discapito degli altri.
È qualcosa di fottutamente difficile da trovare, perché non ho etichette con cui cercarlo in libreria. Mi tocca sfogliare libri su libri alla ricerca di una prosa che mi dia quello. Non è riconoscibile dal riassunto della trama né dalle arzigogolature della sintassi. Mi tocca prendere tra le mani l’individualità di ogni singola opera a prescindere dal suo contenuto puro e dalla sua pura forma.
È un compito ingrato, quasi quanto il cercare l’Essere Umano indipendentemente dal suo sesso, dalla sua nazionalità, religione e partito politico.
(Vedete che tanto alla fine parlo sempre delle solite cose? D’oh. Sesso e speculazioni sui massimi sistemi – fra 20 anni mi troverete alcolizzata all’angolo di una strada a blaterare profezie irrisolte mentre cerco di toccare il culo di un passante, rovinando ridicolmente a terra. Amen.)

Arrivi e partenze.

Osservare come una persona faccia la valigia deve dire molto, su quella persona.
Io mi faccio per l’ennesima volta metodica e creativa al contempo.
Stendo un velo bianco e lindo sul letto, e comincio a riversarvi i vestiti nell’ordine in cui sono riposti nei cassetti – cassetto delle magliette e canottiere in bianco e nero, cassetto delle magliette e canottiere in tutte le terre assieme a quelle blu, viola e verdi, cassetto della maglie in bianco e nero, cassetto delle maglie in tutte le terre… – disponendo il tutto in scale di colori. Seleziono, sorrido soddisfatta, e poi impilo per colore, formando cumuli che vengono stretti da nastro celeste (non è un accorgimento estetico: è che il nastro è di quel colore).
Il mio armadio segue un comodo rigore da psicopatico: è catalogato in base al colore (tre grandi gruppi: il bianco&nero, le terre, tutto-il-resto) e alla tipologia (magliette&canottiere, maglie leggere, maglie pesanti, maglioni leggeri, maglioni pesanti, pantaloni e jeans piegati in due modi diversi). Faccio shopping sapendo quali slots vanno riempiti. So, ad esempio, che mi mancano dei pantaloni estivi grigi. E invernali beige. E via discorrendo.
N disse che la sua intima mascolinità poteva essere osservata nel suo modo di fare una valigia: pratico, essenziale, salva-spazio.
Per quanto riguarda me, la valigia assorbe tutta la mia femminilità residua. Credo infatti di aver messo in valigia una sostanziosa varietà di capi. Varietà, creature, e userò ogni singolo pezzo: vivo con il terrore di non poter scegliere (non solo nell’ambito “vestiario” – l’ambito “vestiario” riceve in riflesso tale mia fobia).
Poi c’è il sacchetto con vari foulard e cinture, quello con le mutande da casa, quello con i perizoma da fuori-casa, quello con reggiseni… (La biancheria intima fa eccezione: esiste solo in categoria “bianco&nero”.)
Dopo completerò con la parte più complessa della valigia, ossia: tutto-il-resto. I libri da portare a VB, quelli che voglio leggere io, (che schifo fanno le pseudo-micro-scolopendre quando le smolecolarizzi contro il muro), quelli che devo studiare; netbook e alimentazione, lettore MP3 e caricabatterie; nonché l’infinita varietà di varie&eventuali che uso e abuso nel farmi una doccia (sopravviverò senza tutte le mie creme profumate? Dai, Sna, sei sopravvissuta fino a un anno fa senza mezza crema, poi sei diventata una checca vanesia, ma puoi sopravvivere).
Domani (perché sono le 4 del mattino) parto per la terra di mezzo, ossia il Lazio. Sarò ospite di VB – cioè, una cosa a metà tra l’essere ospite sua e della sua Manman (è creolo), quella che mi adora, che mi vuole (ri)portare alle terme, al mare, che rompe il cazzo a VB dicendole di mettere a posto la camera perché non intenderà certo farmi trovare un simile casino, chiedendole se si è già preoccupata di cosa mangeremo, se mi porterà fuori e cosa Manman deve cucinarmi (Manman non è mai stata una grande cuoca per VB – ma io sono il figlioletto, o la figlioletta, e insomma non si capisce, virtuale che non ha mai avuto, a quanto pare).
Mi mancano i pini marittimi.
Mi manca quell’aria fresca, frizzante, che mai si posa. Il cielo azzurro (ricordatevi dove abito: qui si va da un grigio-cavo a un bianco-sperma, passando per un viola malato) con le nuvolette-ette-ette. Mi manca anche la gente vestita in modo kitsch (fatemi giocare la checchesca parte della milanese anche se non lo sono – uno nella vita dovrà pur distrarsi dalla vostra esistenza). Ma non è esattamente nostalgia, quanto più una sana voglia di. Ho voglia di vedere i panciuti autoctoni stravaccarsi alle terme, con quell’indolenza prepotente con cui ricordo tanto Civitavecchia quanto Roma. Non mi manca il caos d’esseri umani e macchine romano, quello no – persisto con cocciutaggine a vedere il romano come un scimmia a proprio agio, o mi vengono in mente metropoli sorte sulla cima di Terzi Mondi, in cui ti danno una pacca sul culo con il cofano per poi riservarti sorrisi che io non farei neanche alle persone a cui voglio più bene. Ma, anche se non mi manca, non mi spiacerà finirci in mezzo di nuovo, giusto per sentirmi un po’ più turista confusa – e guardare il mondo con gli occhi meravigliati della turista, essere scambiata per straniera e avere gente che mi sorride. Odierei il farsesco italiano che con il proprio caloroso fascino si fa largo nella tua visuale – ma basta immedesimarmi nella turista che ho in me e quei tizi abbronzati dai sorrisi ferini mi appariranno il romantico italiano tanto vagheggiato nel mio anno in Germania (è facile amare i cliché folkloristici: sono qualcosa di, per definizione, lontano da te, transitorio e lì apposta per divertirti). (Sto parlando come una spocchiosa creaturina che s’erge sulla cima di una civilizzazione che reclama tutta per sé, sì; ossia, come il solito colonialista vittoriano che tanto ripudio. È che, creature, è delizioso farlo.)
Ho anche voglia di rivedere J con sullo sfondo la parata militare del 2 giugno, se il 2 giugno sarà.
J ha riempito diverse serate, diverse chattate dall’argomento mutevole. Rush in Peace è il collante, ma poi si divaga – e sto familiarizzando con J come si familiarizza con quelle internettiane presenze che vuoi a riempirti le pause, solo che J l’altra sera ha accolto una Me ubriaca facendomi trovare nella casella e-mail un video-trailer per RiP. Roba da mettersi a piangere, saltellare sul posto, abbracciarlo, sollevarlo da terra e farlo girare (cosa che mi riuscirebbe alquanto male, essendo lui vagamente più alto e grosso di me – ma l’alcol fa miracoli, non si sa mai). Sapete cosa significa, un video-trailer? Significa che la personcina è entrata nel mondo di RiP abbastanza da cominciare a crearne parti. E ciò, ovviamente, mi commuove. Mi commuove anche la disponibilità di J ad aiutarmi con tecnicismi che per me sono arabo – una disponibilità che deve essere una commistione tra carattere, scimmia per i tecnicismi e apprezzamento di RiP, suppongo.
Con Noes possiamo ricominciare a scrivere da oggi, ossia da domani, e facciamo passare un paio di giorni perché sarò un po’ impegnata. Ha dato l’esame che le catalizzava ogni attenzione, e così possiamo metterci lentamente in marcia. Sprono a un lavorio senza fretta, con i tempi necessitati – tanto abbiamo 12 capitoli già scritti da dare in pasto.
Nel frattempo, ho usato le pause (e anche quelle che non sarebbe dovute essere pause) per scrivere quei pezzi che intervallano RiP – quelli che delineano e approfondiscono l’ambientazione, per intenderci. Ho avuto un’idea per il re-inserimento del nostro caro Krzysztof (che verrà chiamato “Christo” causa impronunciabilità del nome), che volevo più presente. Christo è stato costruito sulla stessa matrice che partorì Nikolaus – ve lo ricordate, il nostro tagliatore di diamanti ebreo con il vizietto delle ragazzine, che vive tra miserabili anche se è ricco (anzi, proprio perché è ricco)? Christo/Nikolaus è un augurio di buona vecchiaia su una qualche corrotta spiaggia assolata, una piña colada in mano mentre esseri umani giovani e servizievoli si divertono (o fingono di divertirsi – ma tanto tu sei al di sopra di tali bieche preoccupazioni e non ti formalizzi) corteggiandoti i sensi. Il genere di persona che ti causa una subitanea simpatia, che è più una forma bonaria e ottimista di invidia.

Krzysztof, il cliente, un cyborg che oscilla sfacciatamente tra organico e inorganico, tra élite e feccia, accarezza il vetro con una certa tenerezza. Stona. Krzysztof ha quarantasei anni cyborg, l’aspetto di un umano di ventidue, ed è un mediatore. L’anello mancante tra due razze che da decenni a forza collaborano e che si sono sempre odiate troppo per cercare compromessi.
[…]
“Parlo di una svolta, Peacemaker. La casta cyborg è cresciuta abbastanza, ora si può permettere rivoluzioni interne. Parlo di un gruppo di giovani cyborg, discendenti di Mittal, Depoortere, e anche il tuo Goryeo, che ha trovato un antico libro in cui veniva descritta la società ideale. Una cosa chiamata ‘Legge Pubblica’, in cui i figli sono di tutti. Nessun padre, nessuna madre. I cyborg non digeriscono più di dover partorire un essere di carne e doverlo allattare per anni in attesa delle sostituzioni chirurgiche. Gli fa schifo. Ah, non guardarmi come se la cosa non ti riguardasse… Né io né te siamo più capaci di certe cose. Inseminazione, okay. Ma un bambino… No, un bambino no. È il titanio. I bambini cyborg vengono allattati da badanti umane, ci sarà un motivo, no?”

Peace, invece, mi tiene placida compagnia.
Peace è uno tra quegli ideali compagni con cui passerei una mistica nottata in silenzio a osservare fuoco divorare legno. Lo uso – ma di questo posso rendermi conto solo adesso, non ne ero cosciente quando cominciammo a scrivere RiP – per sfogare il fastidio (dovuto a un non-comprendere) che mi causano una gestualità inutile e rumorosa, il lamentarsi costante che forma il brusio di una serata al bar, e tutte quelle cose a cui a malincuore ho dovuto ri-abituarmi quando sono tornata in Italia (intendiamoci: anche i crucchi si lamentano, e con una pedanteria massacrante – ma non capirli mi riesce meglio).
A parte questo uso, ho poco a che spartire con un Peace. Ha un che di Tanz – il nome che ho dato alla mia coscienza più irreprensibile e nietzschiana – ma questo “che” si ferma al must “Cammina sul dolore, cammina sulla fatica, cammina su te stessa” – cosa che devo farmi ripetere da una coscienza costruita a tavolino perché infine non ci credo troppo.
Peace che è più un’ideale di amico che di personalità.
Peace che ho potuto permettermi di creare così immoto e silenzioso solo perché a fare da contraltare c’è Noes – i suoi rumorosi Byron e Michel che riempiono quello che altrimenti sarebbe un noiosissimo silenzio.
(È il motivo per cui non riesco a scrivere di Cody “Banshee” Horton: quell’uomo è troppo silenzioso, anche interiormente.)

Sto leggendo La canzone di Jolanda di Claudia Salvatori. Dirvi “ve lo consiglio” è scontato e ridondante: vi consiglio Salvatori in toto, indifferentemente dal modo in cui si è declinata.
Ve la consiglio essendo di parte, e intendo: consigliarvela è come consigliarvi me stessa, solo che Salvatori esprime meglio cose che io vorrei esprimere ma non riesco. E lo fa con più semplicità, senza perdersi in morbose elucubrazioni.
Posso leggerla senza dover frenare sorrisi di compatimento (sono sempre una creatura modesta) dinnanzi a narratori dalle visioni limitate, senza dover sbuffare dinnanzi a una retorica che non viene criticata per essere retorica solo perché è usata da così tanti che viene preso per buono sia valida. Salvatori dice qualcosa di rivelante tra una parola e l’altra, non in ciò che le parole compongono. È il come e non il cosa a far sì che io mi stia riempiendo la libreria di suoi lavori. Salvatori è la dimostrazione che è il linguaggio il primo veicolo di significato, e quindi di visioni del mondo. Dio la volle crescere negli ambienti della narrativa popolare, così che Salvatori ha imparato a fare quello che io mi ostino a non voler fare: essere leggibile e d’intrattenimento.
Per questo dovete leggerla: perché è un ponte tra me e voi.

Rush in Peace e altre ex-utopie.

Ore e ore di fila, fino a formare giorni, soddisfacenti ed esaltanti (eccettuando il mal di testa di stasera – passato).
Mi basterebbe elencarli per gioirne – intendo, se li elenco a me stessa ne gioisco, al solo pensiero, ma così non riuscirei a rendere a voi la mia esaltazione – non ho bisogno di ri-rappresentarmeli per gioirne, basta chiamarli per nome.

Ho appena mandato un’e-mail a C, la cui e-mail di oggi mi ha esaltato come sempre le e-mail mandatemi dai destinatari delle mie platoniche cotte rimbaudiane mi esaltano.
G – che, detto con raffinatezza, è una gran figa – una gran figa che sta leggendo RiP – mi ha proposto di incontrarci settimana prossima a Milano. Ora, io ci provo puntualmente con le gran fighe (e se uso queste due parole in fila ancora una volta comincerò a immaginare vagine fluttuanti), quindi dio sa se mi prenda sul serio (non so neanche se io mi prendo sul serio), ma il fatto che una… quella cosa di prima, sì, il fatto che una di quelle cose di prima accenni all’idea di vedersi (poi a chiederlo sono stata io, ma lei è stata deliziosa) dopo il mio costante e pacato d’ottusità provarci è, beh, un segno positivo. (Questo periodo è stato scritto da Brat, palesemente.)
B, invece, pop-uppa nella chat di gmail – B è quella graziosa silfide dai tratti di folletto ambivalente a cui sono moderatamente morta dietro – mi lascia un saluto gratuito dopo mesi, le domando se abbia un attacco di nostalgia o se qualcosa le abbia fatto venire in mente me, e il suo semplice rispondermi che mi pensa anche quando non mi saluta mi rende felice – perché ero già felice, sono esaltata come una pubescente.
A esaltarmi come una pubescente ha compartecipato l’accordarsi con K perché venga qui a farmi una cheesecake, e il suo proporre di trascinare S con sé – passando qui la notte, ovvio. Ora, a parte il fatto che io adoro sia K e S – due menti geniali per diversi motivi, e il fatto che si frequentino me le fa apparire ancor più geniali – fate voi i vostri calcoli circa i motivi della mia esaltazione (oltre al fatto che leggeremo RiP ad alta voce interpretandolo – l’ho già fatto con K leggendo Gioco della rosa, ed è sublime).
C’è poi di nuovo nella mia vita N (che tramutiamo in una consonante per imparzialità – tutti gli altri abbreviati e lei no?), e N è sempre la stessa creaturina che è adorabile volente o nolente, adorabile malgrado se stessa. Dovrei incontrare N a Roma, e sempre a Roma forse riuscirò a offrire un aperitivo a J – con cui ho passato la giornata di ieri scambiandoci e-mail. J che ha deciso di usare ore della sua vita per spiegare alla sottoscritta cose che per la sottoscritta sono arabo, e ci è riuscito egregiamente.
A inizio giugno andrò infatti in quel del Lazio, dove VB mi offrirà una cena con le mance che oggi si è guadagnata con il sangue. Le ho detto che mi toccherà dunque farmi vezzosa quella sera, perché amiamo (plurale maiestatis) giocare con i cliché, e VB è la persona da cui adoro farmi portare fuori a cena, tutto pagato, portiera aperta per me, diffondendo imbarazzi mentre le faccio piedino. Mangerò carne e funghi a morte e svuoterò una bottiglia di vino con lei, sorridendo al cameriere come una mantenuta sorride – non vede, il cameriere, in che ottime condizioni verso? Mi farò portare nella casa dei lupi e smaltiremo la bottiglia di vino crollando poi nello spesso e morbido materasso.
Il giorno dopo, invece, la creaturina instabile e capricciosa sarà N, e la guarderò con pacato sorriso comprensivo dall’alto della mia integrità (quale?). Mi prostrerò invece ai piedi di J, ringraziandolo nuovamente per l’aiuto datomi – J che, a dicembre, mi disse che leggeva pezzi di C (la stessa citata a inizio post) per quanto bella la prosa di C è – e così il cerchio si chiude, pur tralasciando qualcuna tra le persone che mi hanno reso dello sprizzante umore che mi sorregge, e che mi ha fatto passare il mal di testa.
Mater – mentre mi tirava il collo per farmelo passare – mi ha proposto un massaggio serio alla spa, e io ho trovato il massaggio della mia vita sul volantino della suddetta spa: Back and Shoulder Decontratturante (tutto doverosamente con maiuscola, mi raccomando), ossia “Manovre decontratturanti di allungamento della colonna vertebrale, di scioglimento, di stiramento e infine di apertura dei blocchi energetici della schiena. Vengono lavorati anche i piedi.” Non chiedetemi che c’entrino i piedi, ma io nella vita ho due problemi: spalle e schiena con muscoli aggrovigliati, e pianta dei piedi con lo stesso problema. Non chiedetemi neanche perché questo massaggio sia Per uomo (c’è scritto – con “uomo” minuscolo, però). C’è una cartella nascosta che include un massaggio alla prostata? Mah.
Comunque.
Comunque, creature, sono circondata di belle ragazze e ragazzi, di cui molti leggono RiP, che propongono incontri: dovrei essere una mentecatta per non essere esaltata come un quattordicenne brufoloso, non vi pare?
C mi ha invitato ad andare a trovarla, a fine estate, quando cioè potrà fisicamente aprirmi le porte di casa sua – e io ho sorriso e sorrido lieta, di una contentezza interiore. Le ho scritto una lunghissima (ovviamente) e-mail dopo aver finito un suo ennesimo romanzo (arrivatomi oggi e quindi iniziato oggi), per poi allegare Jean, un mio vecchio “pezzo”, che racconto non è, ed è a malapena pezzo. Un pezzo troppo contorto e troppo “dentro di me” perché io ci conti – intendo, non conto sul fatto che possa essere letto e compreso. Gliel’ho mandato dopo aver finito il suo romanzo. Ho pensato, rileggendo Jean, che lei avrebbe potuto comprenderlo – questo vi dà un’idea dei motivi della mia assoluta, folgorante, eppur pacata lietezza? Mi piace che sia pacata, sì. È da mesi che inseguo il carattere di Aristide – Aristide è un personaggio di mia creazione, creo personaggi per farmi ispirare da loro – Aristide che dovete leggere alla franscese, anzi, alla creola. Aristide che in ogni salsa io lo metta ne esce come un personaggio che si è trovato un dramma umano sulle spalle, e ne è uscito con il sorriso umile dei santi. Aristide, dinnanzi a una detonazione a dieci metri da lui, reagirebbe con la stolida perplessità degli alienati – non è alienato, è solo a metà tra due mondi – Aristide che è un houngan.
Amo quella pacatezza perché ho abbastanza motivi per darmi a una felicità aggressiva – la felicità di chi si sente baciato dal cielo e quindi non rispetta niente e nessuno, urlando sordo le proprie fortune. Sono odiose le persone aggressivamente esaltate, nevvero? Così tanto che anche io cerco di abbattermi sussurrandomi memento mori. Ma sono fortunata. Lo sono sempre, nel momento in cui questa fortuna dipende dalle persone che la vita mi manda. Amo essere grata, creature, lo sapete. Sono ricolma di gratitudine, a livelli orgasmici. Probabilmente Dio ha anche questo senso: avere qualcuno a cui urlare la tua felicità, qualcuno di abbastanza grande da poterla com-prendere tutta.
Fingiamo di tornare con i piedi per terra dando informazioni di servizio.
N oggi pomeriggio aveva corretto 243 su 322 pagine di quelle che compongono il file, incluso il sistemare quei pezzi che hanno fatto sì che chi di voi ha chiesto RiP abbia ricevuto 17 capitoli: nel 18 c’era qualche incongruenza da sistemare. Appena avrà finito le 322 pagine, rileggerò il capitolo 18 e ve lo manderò, insomma.

Ho scritto a C dei miei periodi grigi, quelli in cui il mondo è grigio, grigio come i cieli che immagino in detti periodi, realizzando che periodi non sono, ma semplicemente una stanza presente, onnipresente, nel mio cervello, in cui in ogni momento posso tornare.
Ho cercato di descriverle il mio modo di viverlo al meglio, questo mondo, realizzando che sono aggressiva anche in quello. Le ho scritto, difatti, che in teoria sono una pessimista cosmica, perché non conto sul fatto che l’umanità possa emanciparsi dallo stato di ridicola scimmiaggine auto-esaltata in cui da sempre vive. Le ho scritto, insomma, che l’essere umano è prima di tutto fallace – eppure io proprio di questo mondo disegnato da una mente negativa godo. Ne godo traendone il meglio, strappando da voi i vostri lati migliori e guardando con il pacato sorriso di cui sopra quelli che considero difetti. Non sarei una persona così grata se non vietassi al prossimo di infliggersi a me. Riesco a convivere con la brutale arbitrarietà di tale prendere le distanze, perché io stessa evito di infliggermi, e così tutto appare benedetto da una nobilitante coerenza.
Da mesi osservo il mio prossimo che lamenta relazioni deludenti guardando con un sopracciglio sollevato l’umana tendenza a farsi aspettative. Me ne sono emancipata. Forse è stato il mio cinismo – quella camera che sempre esiste nel mio cervello – a portarmi a ciò. Cinismo o placida accettazione di ciò che è, anziché rincorrere ciò che si vorrebbe fosse? Guardo con orrore a chi si fa aspettative, perché nell’essere umano singolo cerco l’individualità, non mie proiezioni. Le mie proiezioni sarebbero sempre uguali, e sarebbe noioso.
Avere un rapporto duraturo, a modo mio, con una persona (VB) che dura da un bel po’ di tempo mi ha fatto male, in quanto ora mi sento in diritto di parlare dei rapporti altrui. Adieu, umiltà. Uso il mio rapporto con VB per fare paragoni – prima potevo usare solo rapporti che avrei voluto avere, con il rischio di sentirmi rispondere (anche da me stessa) che erano solo beate illusioni.
Non lo sono, e uso il rapporto con VB quando le persone mi parlano di tutti quei piccoli, inutili, meschini problemi che un rapporto può vedere sorgere. Mi sento fortunata, allora – e adotto, ancora, quell’aggressivo approccio che chi ha il culo protetto dalla fortuna adotta.
Perché con VB non ci sono piccoli rancori. Non ci sono fraintendimenti lesivi. Non ci sono insoddisfazioni – non hanno motivo d’esserci, perché VB è una persona finita, non può essere me, e neanche Me, e quel che non trovo in lei c’è in mille altre persone, perché chiedere tutto a lei? Il fatto che, quando conviviamo, siamo capaci della coordinazione di un duo di ballerini attesta che il riversare esigenze sul vasto mondo e non solo su una persona non implica automaticamente che il rapporto con questa persona si indebolisca, anzi. Sono arrivata a contemplare la nostalgia provata nei momenti in cui VB non c’era come ulteriore controprova del fatto che, di fatto, il mio rapporto con lei ha tutti i punti fondamentali dei rapporti tanto romanticizzati. Insomma, creature monogame, mi avete fatto crescere con un senso d’inferiorità e ora che anche io ho un rapporto duraturo come controprova mi vendico?
Ho anche temuto che tanto idillio fosse spia di una morbosità, perché più il rapporto con VB va bene più mi sento distante da chi ha bisogno di rassicurazioni per poter intraprendere una relazione in cui passione e cameratismo si mescolano. È desolante pensare che si vorrebbe un certo rapporto ma non riuscire a realizzarlo – ma volerlo e averlo realizzato con una sola persona, a oggi, fa riflettere sulla difficoltà di trovarne una seconda.
Sono una mente speculativa che crea Repubbliche che poi sciorina al prossimo, e troppe volte mi sono sentita rispondere che quando c’è amore c’è gelosia, sennò non è amore, che una persona può solo mal sopportare, ma non accettare, che tu te ne vada a scopare con altre persone, che alla persona che ami naturalmente nascondi i difetti, mentre il cameratismo c’è tra amici. Le persone romanticizzano il rapporto tra me e VB vedendoci amore (e commuovendosi – mah), VB mi prende per il culo per le mie manie da diario del seduttore mentre le racconto chi vorrei scopare e come e lei ride, e alterniamo romantiche cenette in piena regola (ve l’ho detto che mi piace essere portata fuori a cena da lei ed essere civettuola) a volgarità da bassa caserma sui difetti altrui.
Insomma…
We can.
E quindi anybody can.
E ciò migliora la mia visione del mondo, arricchendolo, ma al contempo mi fa sentire in diritto di zittire il prossimo quando questi cerca di ridurre le possibilità sentimentali umane a rapporti limitati.
Tapperei l’altrui bocca berciante cazzate sul fatto che la gelosia è legittima perché spia dell’amore come tapperei quella delle tizie che chiedono che anche le donne siano trattate con rispetto perché anche la debolezza ha diritto di essere rispettata. Tapperei la bocca a chiunque si sia arreso al non aver realizzato i propri ideali, e a chi non ha voglia di sbattersi per farlo. Nessuno può pretendere che il prossimo dia del suo meglio, ma che il prossimo eviti di spacciare per norma le proprie sconfitte.
Ve l’ho detto che la felicità mi rende aggressiva, no?
Tutte le persone che si sentono a posto si sentono invincibili e gonfiano il petto con noncuranza – brutto vizio.

Vorrei solo trasmettervi l’ottica delle possibilità.
Vorrei trasmettervi come mi sto vivendo in questi ultimi tempi (non solo giorni). Il sentirmi libera di essere mille cose, ma non solo, il volerle entusiasticamente realizzare.
Vorrei trasmettervi il credere nel fatto che siamo quello che vogliamo, quindi immensamente liberi, liberi in maniera sconvolgente, quasi da perdersi.
Vorrei trasmettervi quanto bello sia essere liberi uno di fronte all’altro, e quindi essere sé e l’altro e tutto il resto, in rotazione, come guardare negli occhi in una persona e vedere tutte le possibilità che in potenziale reca. Recate. Rechiamo.
È un pacato continuo muoversi.
Pacato.
… È Rush in Peace, a ben pensarci.

Rush in Peace is back.

… E, dopo tre giorni, ho finito di sistemare Rush in Peace.
(Amen.)
Momento di silenzio e far partire Lost in Moments degli Ulver – o un qualsiasi altro pezzo tratto dall’album Perdition City, colonna sonora non ufficiale del romanzo.
Il romanzo, signori, ammonta a: 246 pagine già pubblicate in vari forum + 128 pagine scritte e inedite + altre 100-150 pagine da scrivere.
RiP, ho realizzato, è un mattone da una 450ina di pagine di – semplificando – sci-fi.
È passato troppo tempo (3 o 4 anni) dall’ultimo volta che ne ho parlato, quindi molti di voi non avranno la benché minima idea di cosa RiP sia. Vorrei spiegarvelo – anzi, vorrei avervelo già spiegato – ma accidiosamente attendo che la co-autrice scriva una presentazione al mio posto.
Sono depauperata.
Ho passato tre giorni di fila a rileggere, trasformare i vecchi HTML e BBCODE in formattazione ‘umana’, correggere sviste, uniformare. Sono così vuota che è rimasto spazio solo per RiP e per Me.
E la seconda, neanche troppo in fondo, è quello che andavo cercando.


Tutto inizia qualche settimana fa, con N ospite a casa mia a leggere con me il mio Onora il padre e la madre. Leggendo narrativa della sottoscritta il discorso si amplia, e cade inesorabile – perché lo fa molto spesso – su Noesis e sul periodo d’oro in cui io e lei cominciammo a scrivere RiP (cominciammo e quasi finimmo, a vedere l’ammontare di cartelle).
Vedete, Noes è una creatura speciale. È una Portatrice di Punto di Vista. Ne porta uno guizzante, ironico, comprensibile a qualsiasi orecchio ma non banale – ha la capacità dell’espressiva sintesi tanto bramata da Picasso e tanto elogiata in Hemingway (ma Hemingway, a me, poco ispira). Noes finisce nell’elenco dei miei scrittori preferiti ogni volta che mi viene chiesto di stilarne uno, a fianco di Genet e Palahniuk e dio sa chi altri.
Noes ha qualcosa da dire, come si suol dire. Attira elogi da disparati lettori – ma non sono semplicemente elogi, creature, sono i feedbacks a cui una personalità carismatica porta.
Noes, soprattutto, mi rende di parte.
E non mi riferisco alla cotta folgorante che ha travolto quell’instabile creatura qualche anno fa (la mia cotta), che altro non è stato che il normale procedere di una brama.
Amo e amerei Noes in ogni caso – e ormai è comprovato: l’ho amata anche mentre cercava di scacciarmi goffamente – per i motivi sopra esposti.
Perché è una Portatrice di Punto di Vista.
Uno che sa, poi, particolarmente bene rinfrescare la mia mente che tanto facilmente s’ingombra con speculazioni.

Parlando con N, la solita botta di nostalgia è tornata a galla.
Stavolta, però, è rimasta in superficie, portandomi – qualche giorno dopo – a tentare Noes su Facebook, persuadendola in cinque minuti secchi a riprendere in mano RiP.
Ma non è merito mio, creature, se non in quanto co-autrice di RiP – è bastato riportargliene un pezzo per vederla cadere ai miei piedi (con una certa soddisfazione, dato che giusto ai piedi di Me-Scrittrice le bestiaccia cade).
È che, creature, avevo dalla mia un’immane convinzione a portarmi a rimettermi in gioco senza seghe mentali, e sta nella parola sintonia e fusione. Io e Noes ci fondiamo troppo bene per sorvolare sul fatto. La bestiaccia può negarsi alla mia interezza a morte (almeno finché non l’ho a portata di mano), ma non può negare a se stessa l’ovvio manifesto – soprattutto considerando, ri-considerando, che l’ovvio manifesto si è protratto per 374 pagine.
Sorvolando invece sulle mie manie di grandezza e sui miei contorti modi di essere romantica, passiamo al secondo evento che mi ha portato, ieri sera, ad avere allucinazioni da sonno per la seconda volta nella mia vita causa rilettura di RiP.
Risollevando RiP si è risollevato un polverone di ricordi tangibili. I ricordi sono una cosa stramba, che possono diventare tutto o nulla, poiché risiedono nelle nostre solipsistiche menti. Ma ho avuto di più: ho avuto il palpare attorno a me i ricordi altrui su RiP, il vedere l’effetto che ha scatenato in altri, e quindi il chiedermi quale buon motivo fosse dunque rimasto per non concluderlo.
Dal 2007 a oggi sono successe molte cose. Ho pubblicato, rimanendo in tema. Immagino sia una di quelle soddisfazioni che proprio bisogna togliersi, come nulla oltre all’esperienza potrà spiegare a un essere umano i pro e i contro di una sbronza.
Pubblicare – o, meglio, l’ottica del pubblicare – mi ha cambiato il cervello per un annetto buono. La mia prosa si è – e ne ho sovente parlato – prosciugata, ingabbiata da non-così-utili-regole. Il mio lettore immaginato – tanto deprecato – era diventato un mostro, il genere di average man da ucronia, quello che non vuoi diventare. Mi sono inaridita di riflesso.
E RiP mi ha riportato in Me.
Per questo, credo, non ho potuto abbandonarne la lettura finché non l’ho finito. Per questo sono arrivata – ieri sera (no, era l’altro ieri sera) – dopo 15 ore di lettura e correzione – a vedere meduse ai limiti del mio campo visivo, e ombre ondeggiare e danzare con luci riflesse, e i colori virare verso rossi sanguigni e verdi malati. Ma non potevo fare altro.
Per spiegare tale situazione avrei detto che la mia realtà in quel momento era RiP, e quindi per stare in pace dovevo alienarmi in Rip. Ma il discorso è in qualche modo opposto: ero alienata prima, e RiP mi ha riportato in me.
Ho poi voluto, a lettura terminata, sbrigare subito una serie di faccende (correzione di errori sistematici, ordine nell’incasinata cartella, ripasso trama) per liberarmi d’ogni incombenza e farmi trovare pronta in ogni momento allo scrivere – e potendo così riprendere lo studio per gli esami.
Mi sento meglio.
Mi mancava Peacemaker, il mio personaggio con il più alto numero di nomi e soprannomi (Peace, Peacemaker, NoceDiCocco, Ragazzone, scimmione, Scimmio, Negro, negro di merda, Cyborg, Super-Cyborg…). Beh, piace a tutti condurre un alphaman di titanio, checcazzo. In un periodo di checcaggine acuta controbilancia, e io ricomincio a osservarmi gli addominali cinque volte al giorno allo specchio (stanno bene, benissimo, nel senso che i tre giorni di alienazione hanno incluso un’alimentazione base e rada, portandomi al prosciugamento).
Dopo smetterò di accarezzarmi l’addome infilando le dita tra le costole per farmi una doccia, perché devo puzzare di morte. I tre giorni di RiP hanno veramente escluso ogni altra priorità – mangiare, bere, (beh, fumare no), dormire, pulirmi, andare al cesso, fare pausa… Sono pronta per una purificazione, insomma. Catartica doccia a far scivolare via la fatica, assieme a tutte quelle cose di cui spero di essermi liberata.
Ho scoperto con la rilettura di RiP quanto la mia prosa si sia asservita alla grammatica. RiP è pieno di congiuntivi falliti a favore dell’essere diretti (e non si sentono, perché sono la scelta ottimale), di verbi intransitivi transitivizzati, di preposizioni che caricano i sostantivi di significato (insomma, ho fatto con RiP molte delle cose che – ho studiato qualche giorno fa – fecero i Futuristi – o erano gli Scapigliati – d’oh, devo studiare). RiP, insomma, è scevro di cazzate quali timori ed esitazioni.
Ma è Noes è il genio.
Dovete immaginarmi scrivere con Noes come voi scrivereste con il vostro scrittore preferito – con la possibilità di farsi maliziosi, ma questa sono io, non voi.
Andrò quindi a donarmi alla doccia, lasciandovi un pezzo di RiP.


… tre anni dopo, Michel ha ancora l’uniforme scarna e monocromatica della Ragnarok.

(Che poi non è un uniforme, ma lo scarto di uno stock di uniformi non vendute.)

 

E sta pulendo un’arma.

Con dovizia, con calma, quasi con un sorriso tra le labbra. Appena alzato, nella propria armeria, si accinge a dare il buongiorno al cosmo. Perché per il momento attuale, percepibile è un buongiorno.

Non c’è nulla di meglio che assicurarsi, componente per componente, che un fucile a ripetizione sia lindo come il culo di un bambino, lucente come una stella appena nata.

È questa la massima poesia di Michel: ode alla precisione millimetrica di un armamento.

Amen.

Poi la porta – perché è una porta e come tutte le porte ha una funzione e quella adempie – si apre.

Sibilando e scorrendo, e mostra il giulivo (concessione alla poesia) volto di Peacemaker.

Michel fa un’impercettibile smorfia. Piccolissima, che certo non può sfuggire ai cyber-occhi del Cyborg.

Frega un cazzo. Michel appoggia l’arma sulla coscia, la carezza come un’amante appagata. E lo fissa.

“Il capitano desidera?”

Peacemaker, anche detto qualche-volta-potrebbe-gentilmente-cessare-di-esistere, guarda la canna lucidata, il tamburo, il grilletto oleato di fresco, inespressivo.

E, inespressivo, comincia la giornata con simpatia:

“Non c’è tempo per coccolare i tuoi cuccioli. Le casse di spinotti vanno spostate all’entrata.”

“Quali casse? Quali cazzo di spinotti?”

“Quelli che abbiamo ritirato a Piros-8, in memoria? Sono sotto altre casse, non possiamo perdere tre ore al porto.”

“Ma non dovevamo portarle in quel cazzo di buco? Dista almeno tre anni luce da qui. Dovremmo arrivarci domattina, non stamattina.”

Michel lo fissa perplesso, posando sul tavolo da lavoro, con millimetrico amore e precisione l’arma.

“Le scarichiamo ad Asterpe-01. Fra cinque ore. Ho cambiato idea.”

Ipse dixit. Il signore ha proclamato. Il Verbo comanda.

‘Fanculo.

Michel sbuffa. Ringhia. Lo guarda male. Un fottuto mastino sarebbe più gradevole.

Incrocia le braccia mediamente nerborute al petto. Grugnisce. Ancora.

“Che cosa?”

“Quale parte non ti è chiara?”

E Peacemaker pensa una parola, una sola, distintamente.

‘Umani…

È dalla sera prima che lo pensa.

E continuare a ripeterselo non gli sta togliendo il dolore alle palle.

“Non mi è chiara la parte dove tu cambi idea, come un moccioso isterico, e mi ORDINI di eseguire le tue deliranti direttive. Quella cassa deve essere recapitata a CHI deve essere recapitata. Non empiricamente, non a caso, al primo che passa, oppure regalata a pochi crediti in qualche schifido mercato sub-coloniale.”

“Michel, fammi memoria… Tu cosa sei?”

“Un armiere. l’unico, fottuto armiere che abbia mai avuto il coraggio di calcare il suolo merdoso di questo cargo.” aggiunge con una smorfia, accendendosi una sigaretta, proprio in faccia al Cyborg.

I filtri potranno anche filtrare gas nocivi.

Ma la puzza del primo tiro di una sigaretta tagliata male gli arriverà dritto alle narici.

“Perfetto. E io? Sempre dal merdoso punto di vista formale, intendo.”

“Il fottuto negro che conduce questo cargo di merda.” replica con un tono prossimo allo zero assoluto; ha capito dove vuole andare a parare, lo stronzo.

E capisce di aver già perso, in partenza.

Il capitano, inespressivo come padre titanio comanda, lancia un’ultima occhiata al fucile. Con sufficienza.

“Posso aiutarti in altre cose che non capisci?”

“Va’ a farti fottere, Peace. Sei un dannato figlio di puttana.” mormora secco, con un ringhio storto, Michel. Poi si volta, guardando le sue bambine, le sue armi, le sue uniche amiche. Stringe i denti.

Vorrebbe svuotargli un caricatore addosso. Ma non può. È contro la deontologia professionale.

Mai odiato tanto qualcuno in vita sua quanto odia Peace. Forse uno.

Ma quell’uno non se la meritava.

Michel morde di nuovo il filtro della sigaretta, fino a spezzarlo. La cenere gli cade sulla maglietta, e manda una bestemmia.

Peacemaker continua a guardarlo come se fosse il fratello ritardato della banda.

‘Fanculo.

“Cinque ore, Michel. Non voglio fare le cose all’ultimo, okay?”

“Sissignore, Capitano Signore.” mormora, sputando ai suoi piedi. “Come il signore comanda. Va a tenere il culetto al caldo, intanto, mon Capitaine… lo schiavo, lavorerà per lei.”

‘Umani…

Lo pensa Peace uscendo dall’armeria.

Umani inclini alla lamentela e poco portati alla risoluzione. Ci sarà un motivo per cui l’umanità esiste da migliaia di anni e da migliaia di anni si lamenta delle stesse cose.

L’Era di Smoke

Come da minacciato, vi scodello quel raccontino sci-fi/cyberpunk scritto settimana scorsa.
Consolatevi, è una minaccia lieve: 7500 caratteri (due pagine).
Se seguite Rush in Peace, dateci un occhio.
Rush in Peace è ambientato nel 2165.
Questo pezzo è ambientato poco dopo il 2071.


Se avete sentito nominare Screwdriver la vostra anima non andrà persa. Se lo avete sentito nominare potete scivolare sulla fame e sulla malattia come un connesso scivola negli interstizi della Rete.
Il dolore e la frustrazione scompariranno nell’effetto neve del vostro terminale. Screwdriver ci ha tolto la terra da sotto i piedi – e aperto il cielo.

Kovskij dice che questa è

L’Era Di Smoke

( Continua… )


Grazie a noesis_2, è grazie a lei che mi sono trovata a ripescare una vecchia ambientazione e a lavorarci sopra per dare terreno solido a quella splendida cosa che è per me Rush in Peace.
(Ehy, bestia, sai che al capitolo 30 siamo arrivate a scrivere 400 pagine? o_o)
Grazie a roninreloaded, che senza volerlo mi ha portato a riconsiderare l’Era di Smoke come teatro per alcune mie riflessioni/sperimentazioni.