gemütlichkeit

Berlin (I)

La Berliner Kindl è la birra perfetta per gli ubriaconi.
Ma fatemi spiegare.
È leggera al gusto, nello stomaco, e soprattutto alla testa. Non lascia tra i neuroni quel memento mori che ti ricorda che l’hai bevuta. È quasi come un tè, ecco. È quasi come il tè che bevo ritualmente prima di andare a dormire. E, a proposito, qui a Berlino ho trovato un Earl Grey erotico al palato.

Scrivere il primo post sul blog post-trasferimento è sempre un po’ rituale. E, sempre, non si ha mai il tempo di farlo, troppo presi dal ricreare quel minimo di vita quotidiana – quel “sentirsi a casa” – necessario a potersi sedere e scrivere tra sé e sé.
Mi sento a casa. Da giorni. Ma poi è arrivata la burocrazia tedesca, il curriculum in due lingue e il dover girare un po’ – spiace, quando vivi nel centro di Berlino, non macinare almeno un paio di fermate di metro al giorno. Sono arrivate cose, insomma, che continuano ad andare avanti. E io ho aspettato non aspettando il momento propizio. Che non so se sia questo, a tutto dire, ma la Kindl mi ha suggerito:
Prima o poi dovrai farlo.
Che è sempre meglio del ricordarti che l’hai bevuta.

Ho detto che qui mi sento a casa, sì?
È quel concetto di casa troppo spesso anelato e che troppo raramente si realizza: è l’unione di molte di quelle case che, con un certo scetticismo e un certo distacco, sono state postulare nel corso della propria esistenza. Qualcosa come: Sarebbe bello se nella mia vita mi svegliassi in un posto che… O: E se potessi nella mia vita scrivere da una stanza che… Un insieme di queste cose, appunto, che in questi giorni cerco inutilmente di stilare in una lista.
E proviamoci ancora.
Ha qualcosa del Törless, che mi sovviene perché il Törless pop-uppa in automatico ogni volta che mi accosto anche solo vagamente a qualcosa di anche solo vagamente germanofono. Che cosa, non lo so. I soffitti alti, forse. Il soggiorno che chiamiamo sala ufficiali (o sala bocciofila, a seconda dell’angolazione), forse, anche se non mi pare di ricordare nessuna insistenza sui soffitti nel Törless. Insomma, non importa.
Qualcosa di Erich Maria Remarque, giusto per giocare facile. Qualcosa di tedesco e passato, cinico di quel cinismo che scalda i cuori perché infila il naso laddove i cuori troppo puri neanche immaginano il male possa annidarsi. E poi lo sto leggendo, Remarque, e lui e questo luogo si stanno dando forma a vicenda.
Ma c’è anche il bello di condividere l’appartamento con altre persone. Ho spesso detto che vivere con altri può essere o meraviglioso od orribile, con rare vie di mezzo. Qui c’è questo, ma c’è un’altra aggiunta: vivo con persone con cui posso discutere di argomenti disparati con quell’apertura mentale, che altro non è che un modo di parlare di curiosità e umiltà, che mi fa stare bene. Bene e basta. Bene come si sta quando si è in un luogo in cui si vuole essere.
E poi – ve l’ho detto? – ci sono i fatti in sé. Il vivere in un edificio storico che non dimentica di esserlo (difficile, con l’enorme stella di David e le 15 targhette memento mori davanti al portone), con le scale infinite dai passamano d’epoca, i famosi soffitti alti e la porta della servitù per accedere alla cucina, le finestre alte dai doppi vetri letteralmente, e bla bla bla. Ma i fatti sono sempre misera cosa, nudi. Ma qui vengono coperti da tante di quelle istanze, passate e presenti, sociali e personali…
E, così, un po’ di Törless, un po’ di Remarque, la sala ufficiali e la bocciofila, ma anche la musica elettronica e la textile art dentro casa, mentre fuori a un tiro di schioppo riluce Ku’damm da una parte e Kreuzberg dall’altra. Poco oltre – solo qualche fermata in più – Unter den Linden e quel prussianesimo che amo nella sua dolce durezza (o dura dolcezza, as ya wish), gli edifici in “mattoncini rossi” e i palazzi quasi istericamente nuovi, e tutto tutto tutto, soprattutto quello che devo ancora conoscere.

Poi c’è tutto il resto.
La burocrazia andata e quella a venire, il cercare e lo sperare di trovare, e bla bla bla…
Ma preferisco affrontarli qui come li affronto nella quotidianità: s’ha da fare, si fa, fa parte del tutto, e anche questo fa parte del quadro. Ne è elemento essenziale, in un certo non troppo oscuro senso.