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LACRISITuttoMaiuscolo.

Imbrattavo un foglio imbarcato con acquarelli e saliva, usando musica accumulata negli anni per riempire buchi di cervello non saturati.
Sono così incappata in Quelli che benpensano, una canzone che mi ha fatto spesso domandare a me stessa, negli ultimi tempi, perché oggi suoni un po’ imbarazzante. La sentivo senza ascoltarla, comunque, finché non ha detto:

…Quelli che la notte non si può girare più…

Io sono sempre la stessa creaturina radical-chic, e ho sempre provato una certa, lieve, rabbia nei confronti di coloro che mi sconsigliavano con tono apocalittico di girare a una certa ora, soprattutto in certe zone. La vedevo come una limitazione alla libertà. Odierei un sistema che non mi permette di girare all’ora che voglio nella zona che voglio, e quindi non acconsento ai timori.
Le voci sconsiglianti passeggiate notturne diventano sempre più frequenti. Non provengono più solamente dai “benpensanti”, ossia quella massa informe che è composta da “loro”, ossia coloro che non abbiamo vicino a noi. Promanano da diversi angoli della mia rete sociale, da amici e conoscenti e passanti e amanti, e non posso odiarli tutti, così rifletto.
Rifletto su “La Crisi”, di cui non mi piace parlare – e infatti non ne ho ancora parlato – come non amo parlare dei fenomeni correnti diffusi dai media. Uno dei miei incubi è l’isteria collettiva, dopotutto. E le self-fulfilling prophecies.
Ho pensato, con quella vecchia canzone di sottofondo, che “lo studio della storia serve ad avere paura”. Negli ultimi tempi mi diverto diffondendo su Facebook allarmismi profetizzanti la (ri)conquista dell’Europa da parte della Germania. Sì, ho appena scritto che l’isteria collettiva è uno dei miei incubi peggiori. Dovrò pur esorcizzarlo. Ma comunque. Diffondo tale allarmismi con poco peso, credendoci con poco peso – ma credendoci. Non perché io creda che la Germania abbia nel DNA una tendenza alla conquista dell’Europa – e solo perché non credo nella genetica. Penso solo che la Germania ha nelle consuetudini una produttività impressionante, che l’ha attualmente resa così solida – soprattutto ai propri occhi – da impedire ad altri Stati europei di farle la morale – e alla Germania piace fare la morale agli altri, quindi fate 2+2.
Ma divago.
Non ho paura di una (ri)conquista tedesca.
Provo invece una certa inquietudine nell’osservare come una crisi economica, e anche questa volta, abbia sempre gli stessi effetti sul sociale. Studio branche di sapere proprie dei periodi di pace – per questo sono una radical-chic – perché vertono su principi fluidi, non catari, poco rassicuranti, che mettono in dubbio.
Sono circondata da persone che hanno paura.
E io ho paura della paura.
Sono una specie di cane, che reagisce empaticamente alle emozioni altrui.
Ho paura dinnanzi al cristallizzarsi delle posizioni.
Ho discusso a lungo, con diverse persone, a seguito del loro generalizzare alcune minoranze – siano gli immigrati, siano quelli marocchini in cui spesso finiscono altri africani a caso, siano gli zingari (quali? Finiscono tutti in una categoria), gli albanesi prima e i rumeni poi, e via discorrendo. Ho discusso con un fervore che, ascoltando il loro tono, mi è risultato sproporzionato. A priori e posteriori non mi pare tale. Mi spaventa il fatto che io dia così tanta importanza a una generalizzazione fatta uscire dalle labbra con leggerezza – mi spaventa il trovare poche altre persone che lo facciano quanto me. Osservo la ricetta, sempre la stessa, dei preconcetti, composta da un’idea diffusa da notizie parziali, da “sentiti dire”, e da esperienze personali con 3 rumeni che vengono innalzate a esempio sommo del comportamento del rumeno medio. Sono anche i miei studi radical-chic a farmi riflettere su tali dinamiche. Gli studi radical-chic sono quelli che scompaiono in periodo di crisi. E ciò mi spaventa.
È un timore lieve, metafisico, costante, non accecante – sono un’italiana media, senza connotati che possano farmi finire in una generalizzazione stigmatizzante. Altri italiani medi, per ciò, si sentono in diritto di parlare con me di chi italiano medio non è, e ciò mi fa rabbia. Mi fa rabbia il sottinteso “noi”. Mi fa rabbia il fatto che io possa discutere, con altri italiani medi, di misure estreme, di sistemi politici non democratici, di risoluzioni senza compromessi, mentre la prima parola fuori norma pronunciata dall’esponente di un un gruppo che non sia quello dell’etnia egemone in Italia causa scandali. Alla base c’è lo stesso, folle, ragionamento che fa sì che io da donna possa permettermi volgarità immani, che in bocca di un uomo renderebbero costui la versione pre-emancipazione del maschio bestiale. Funny, isn’t it? Divertente il trovarmi a parlare con ragazze con cui ci provo e sentirle lamentarsi di uomini che ci provano in maniera inelegante, mentre il mio medio approccio verbale al sesso sfiora la sindrome di Tourette. Mettetevi nei miei panni – mettetevi nei panni dell’Altro, che a ciò serve – e domandatevi come io possa prendere sul serio le posizioni serie dell’umanità.

Tutto ciò viene intervallato da messaggi e conversazioni scambiate con VB, che è tornata ai propri più caldi lidi per passare il Natale “in famiglia”, in una versione moderata del tradizionale Natale.
Il Natale ha una certa valenza, per la sottoscritta. Non potrebbe non averla, avendone per il resto del mondo in cui vivo. Il Natale è quel momento in cui tutti sono occupati da impegni più o meno inevitabili, mentre io godo di una libertà che risulta immensa al confronto. Niente tradizioni natalizie, qui. Mater ci si impegna vagamente, ma manca l’aspettativa. E così, a Natale, mi trovo sovente collegata, a osservare un mondo semi-immoto, e mi sento come una specie di sentinella sul Grande Nulla.
Mi capita, alcuni anni, di infiltrarmi. M’infilo in Natali altrui, come un turista s’infila in un rituale eseguito dalla popolazione del luogo in cui è in vacanza. Me lo godo. A volte sbaglio i tempi – quando vanno fatti gli auguri, quanto a lungo abbracciarsi, ci si ringrazia per i regali con abbracci informali o formali, e via discorrendo – ma non sono così tanto alienata da muovermi come il turista di cui sopra.
L’anno scorso, in questo periodo, deambulavo come “un animale in via d’estinzione”. Ricordo i quasi due mesi passati a osservare il mio corpo tradirmi, rifiutare il cibo e deperire, il tutto per motivi che non ho mai compreso. (Odio i dottori e Foucault mi ha spiegato il perché.) Chissà perché? Ne ho discusso con diverse persone. Di quel periodo mi è rimasto il rifiuto di taluni cibi (prendetemi per il culo, io e il mio rifiuto dell’Italia, per il mio trovare disgustosa l’accoppiata “pasta + pomodori e loro derivati”), e mi domando se l’ironia della sorte non abbia forse voluto castigare il mio rifiuto di significare il cibo in questo modo. Preferisco dirmi che sono all’antica, e ripercorro i passi degli antichi asceti non dando al cibo altro valore che quello funzionale – il che comunque non spiega il mio rifiuto del piatto italiano per eccellenza, ma sarò clemente con me stessa.


Nel fatalismo che pur negavo e che comunque caratterizza il mio ultimo aggiornamento ho dimenticato che nel nulla, comunque consistente, che caratterizza gli ultimi mesi qualche briciolo di interesse nei confronti del Creato c’è.
Ossia: continuo ad approfondire la “questione irlandese”.
A essere sinceri, il modo in cui approfondisco tale tema rimane quello di chi approccia una curiosità – un assommarsi di curiosità, ma pur sempre curiosità folkloristiche e pseudo-culturali, con un’infarinatura storica. Ancora un paio di film e saprò comprendere un irlandese senza dover socchiudere gli occhi e aguzzare le orecchie.
Di fondo, accumulo nozioni al fine di un viaggio in Irlanda verso San Patrizio, in auto, zaino in spalla, fegato pronto.
Serro gli irlandesi – le loro rappresentazioni più cariche di pregiudizi – con forza. Perché mi entusiasmano e al contempo mi ricordano gli italiani. Dio sa il perché. Tale paragone non è parto della mia mente e basta. Chissà cosa collega questi due popoli. Lo scoprirò. Intanto, spero che gli irlandesi mi aiutino a re-inquadrare gli italiani.