In questi giorni in cui studio e lavoro s’intersecano e confondono e sovrappongono, a tratti, mentre faccio uscire dalla mia bocca strutture appena apprese per riservarle a unə cliente particolarmente bendispostə, ogni tanto una canzone dai lamentosi toni slavi attraversa il mio spazio-tempo.
Vorrei dare nome a quello che, in questi mesi, con tanto piacere quanta frequenza mi trovo ad ascoltare. Sono note che salgono dalla strada nel finesettimana, incontro in metro nella forma di una persona che le suona di mercoledì (o lunedì o giovedì – non c’è norma, non c’è schema visibile), passano per il computer e io dico:
«Si fermi tutto! E questo cos’è?».
Ma, alla fine della giornata – e quella che segue, e poi ancora in quella successiva, quando ancora mi ritrovo tra le orecchie simili melodie – non so che cosa sia. Non so come chiamare questa tendenza musicale che, dopo essere stata ascoltata una volta, sembra ricomparire, apposta, a ogni angolo. Insisto con il definirla slava, pur sapendo che tale termine è tanto vasto quanto, quindi, in qualche modo offensivo, ma è d’altro canto l’unico appiglio che ho. Per il resto, le canzoni che mi trovo a sentire si presentano con volti diversi: nostalgici, a volte, o invece ridanciani e deridenti come se mi passassero, vivi e noncuranti all’idea della morte, davanti in quel momento.
E, mentre lascio che scandiscano l’ennesima ora, li collego – arbitrarietà per arbitrarietà – alle pagine del Mittner che mi accompagnano in questi giorni di studio e lavoro.
Mittner è quello che ha scritto una Storia della letteratura tedesca più che colossale – ma non per questo sommaria, anzi. Adoro Mittner, creatura di altri tempi eppure distante dai suoi coevi. Doveva essere all’avanguardia quando ha cominciato a scrivere saggi – con quel suo tono ancora accademico nella tenuta, ma ben più vasto e omnicomprensivo dello sguardo che s’immagina negli occhi di un topo da biblioteca. E poi l’ironia, sottile, che non sminuisce la profonda passione con cui passa in rassegna tutti gli autori germanofoni che riesce a ficcare in quelle pagine scritte fittamente, con note ancor più fitte. Vi concentro lo sguardo e tutta l’attenzione mentre in metro, seduta o in piedi, lo leggo. Per tragitti brevi o lunghi. La mattina o la sera. A volte, a letto, sotto le coperte.
Mittner sta fungendo da specchio in cui riconoscermi, in questi giorni in cui ho così poco tempo per stare interiormente con me stessa.
Mittner sta fungendo da filo rosso con cui ritrovare i discorsi che lascio in sospeso.
Questa musica indefinibile, ad esempio. O l’indefinibilità in generale.
Qualche giorno fa, in negozio, un italiano in visita all’amica, di provenienza italiana e ora vivente a Berlino, mi ha chiesto a mento sollevato:
«Sai dirmi perché Berlino piace tanto?»
Per la varietà, di persone e quindi stimoli – che s’incarna, detto in un modo che possa risultare forse più tangibilmente riconoscibile e comprensibile, nel fatto che ognunə può andare in giro come gli/le pare e nessunə per ciò lə guarderà non dico male, ma neanche stranitə. Anzi. Ciò arricchisce la città. La crea. La vivifica. Ci si sente parte attiva di un processo in eterno divenire.
Ma non sono riuscita ad arrivare a dire tanto – le parole non hanno fatto in tempo a essere messe nella giusta forma, nel giusto ordine, e d’altro canto l’italiano già mi stava chiedendo se tutto questo essere diversi dagli altri non sia un’altra moda in sé.
E io, davanti a quest’altra domanda a mento alzato in precoce vittoria, mi sono sdoppiata.
Una parte di me ha capito. Ha capito tutto. Ha capito il riferimento all’essere “diversi dagli altri”, lo ha concretizzato in volti e caratteri e tendenze, e ha anche capito il fastidio in reazione a ciò, e come questo si concretizzi in certe altre persone, che discorsi faccia loro costruire, quali argomentazioni, quali vicoli ciechi, quali strade aperte a futuri sviluppi.
Una parte di me, invece, si è trovata in mare aperto senza più ricordarsi come si nuotasse. O, meglio, a nuotare senza ricordarsi razionalmente come si nuotasse, o così ha pensato, non realizzando che non l’ha mai appreso razionalmente. Eppure sa nuotare. E stava nuotando anche in quel momento.
Detto in altre parole:
Non ricordo più molto bene a che serva domandarsi se essere diversi dagli altri sia una moda in sé. Lo è? Può darsi. Ma, se lo fosse, qui a Berlino – come moda che esiste per farsi notare – avrebbe fallito.
La varietà umana, qui, mi fa pensare a quella delle piante, dei fiori e degli animali che trovo nella strada parallela a quella in cui vivo. A volte ci passo nella speranza di vedere uno dei conigli che vi abitano fare quale saltello di fianco a me. Accade a volte, solo a volte, ma poco conta. Tutte le altre posso osservare corvi e uccelli volare da un ramo all’altro, e le diverse forme e grandezze dei rami, le bacche che vi crescono, o le foglie che li riempiono, e quelle che – cadute dagli alberi – sfumano il cemento con gradazioni di giallo, e i fiori sbocciati e quelli nascosti, e – insomma – i diversi modi in cui gli abitanti decidono di far crescere il pezzo di verde che c’è davanti a ogni casa.
Non c’è niente di particolarmente esotico – o strambo, strano, diverso – nei singoli elementi, sembra. Se c’è – e certamente c’è – partecipa assieme a tutti gli altri a creare uno specifico tipo di paesaggio. Ci sono flore e faune mediterranee, flore e faune tropicali, e le flore e le faune delle specifiche città. Quelle di Berlino sono un groviglio di elementi che, altrove, sarebbero strambi, strani, diversi. Qui sono… come dire?… qui sono, tutto qui. E il lato positivo è che, oltre a poter essere contemplati nel loro insieme, nella loro impressione generale, si fanno sminuzzare con piacere per livelli e livelli, come frattali.
È strana Berlino, con il suo convivere di niqab e neonazisti, rampanti capitalisti e promotori della sostenibilità. Ma poi, se si zooma, risultano strani anche i singoli elementi. Un raffinato braccialetto d’argento sul polso dell’uomo che come capigliatura ha un unico, piatto, lunghissimo dreadlock; un cappello a muso di panda sulla testa della donna in completo elegante. E, se si zooma ancora, la situazione non va che complicandosi. L’uomo potrebbe essere un intellettuale di destra, la donna volontaria in un’associazione per i rifugiati.
Quando si cerca di tornare indietro – alla visione d’insieme – se ne scopre la vanità. Si (ri)scopre quanto sia vano cercare un unico e omogeneo filo rosso che colleghi tutte le parti che compongono un individuo. Berlino aiuta, in questo. Aiuta offrendo abbinamenti tanto improponibile quanto frequenti che rendono inutili le classificazioni. Quella lì sembra una punk anni ’80 mescolata con una rastafariana, e quello un hipster mescolato a una drag-queen, ma quello che cosa è…?
Come si può essere diversi quando si è immersi in un mondo di diversi? Diversi rispetto a chi? E a che pro etichettarsi, quando le etichette non aiutano più a dividere in categorie, essendosi le categorie mescolate tra loro senza pudore?
Se il cliente in negozio mi ha fatto tali domande a mento alto, e con pregustata vittoria, è perché di Berlino si parla troppo. Di troppa poca Berlino, e di questa troppo, e nel modo peggiore – ossia quello che si crede migliore.
La Germania non è la nuova America. Pensavo di essere io quella che la serbava con troppo amore nel cuore, al punto d’idolatrarla, ma (per fortuna) mi sono sbagliata (o forse, vivendoci, ho avuto ben poco tempo per adorare l’idolo). Ho visto troppe persone parlarne male con la stessa disillusione e rabbia con cui si parla di unə ex, colpevole, fondamentalmente, di non aver retto alle aspettative dopo essere statə messə alla prova delle nostre necessità. Tanta acredine non può che venire da troppo cieco entusiasmo. Ho chiara e stridente in testa l’intonazione vittoriosa di chi, in un discorso, riesce finalmente ad agguantare un argomento che dimostra che la Germania non è perfetta, e lo usa come se tale imperfezione potesse frantumarla tutta.
La Germania non è il Paese dei Balocchi. Cioè, può esserlo. Per breve tempo vi tratterà con guanti bianchi e con mille riguardi. Questa sarà l’impressione, se verrete qui da un’Italia che, nella nostra testa, non vi tratta come dovrebbe. Di fatto la Germania vi starà semplicemente trattando come reputa chiunque dovrebbe essere trattato – quel chiunque che, di contro, dovrebbe agire in un certo modo. E quel modo non è usare la Germania come fino al giorno prima si è usata la mamma: per farsi mantenere e stirare le camicie – ché, finché si può… Ma sto già ricorrendo a facili cliché per appellarmi a quelli che dovrebbero essere (stati) i miei connazionali. Questa è la cosa peggiore, sapete? Vedere, qui, delle profezie che si autorealizzano. Stereotipi che si disegnano da soli. Italiani che, quasi si stessero dimenticando cosa erano (e probabilmente è proprio così), ricorrono ai cliché cotti e pronti per attaccarsi a una qualche vaga identità italiana. Ed è comprensibile il sentirsi venire meno quello che si era. Si cambia ambiente, si cambiano parametri. Ci si scinde un po’, a volte – una parte ricorda, l’altra no. Ma non è poi così male. E’ solo straniante. Ma in un modo interessante. Ma sono di parte.
Quel che mi affligge è più che altro la distanza che viene a porsi tra me e le persone, a me care, che continuano a crescere e svilupparsi in un contesto diverso. Diverse coordinate, diversi orizzonti, diversi modi di interpretare le cose e prospettarsele. E, soprattutto, l’inidentificabile – come queste melodie slave che tornano e ritornano a cadenzare le mie giornate, provenendo da non so dove e non so dove andando, e chissà quanto resteranno, e intanto le colgo e accorpo a me.
Non c’è meno inquietudine, qui, né maggior senso. Quello è il mondo, no? Che è fatto così ovunque, se è fatto così nella propria testa.
Ma da qui mi sembra di poterlo osservare meglio – mentre, nel frattempo, vivo come in un’isola che, pur essendo al centro dell’Europa, vive in sé. Attinge da tutto, si fa attraversare da tutto, e forse proprio per questo non riesce a farsi assillare da nessuna delle specificità che la circondano. Come fai a parlare, sia male o bene, dell’Altro, quando l’Altro – sia il cattolico, lo hipster, il neonazista, il musulmano, l’italiano, l’omosessuale, il cinese, il capitalista – non solo è ovunque attorno a te, ma è proprio davanti a te mentre ti vende quello che compri tutti i giorni? Alla fine si parla di tutti e tutto come se nella stessa stanza ci fosse l’intero mondo ad ascoltare – perché non sai quale parte di quel mondo, in quel momento, effettivamente ci sia. E’ una specie di panopticon culturale che, anziché indurre al silenzio, spinge a trovare nuovi modi di parlare l’uno dell’altro senza né includere né escludere. Un po’ per buona creanza – questa è l’impressione iniziale – un po’ per convivenza – questo diventa il fatto poi – un po’ perché poi diventa insensato fare altrimenti – e questa è, credo, mera abitudine, per quanto sia un’abitudine da me adorata.
Ho pensato, oggi, a tutte le volte che ho sentito fare battute su omosessuali e islamici (argomentoni del passato e del presente), a cui ho reagito seriamente, per poi sentirmi dire che “era solo una battuta”. Ho pensato, con uno strano cuor leggero, che la risposta che segue è semplice, semplicissima, così semplice da essere diventata un tabù. Suona volgare come un “E tu sei unə coglionə – ma è una battuta, eh”. Perché se una battuta si può fare su una persona, allora si può fare su tutte. Ma non funziona così, vero? Le battute su certe categorie funzionano quando le categorie non sono presenti o, peggio, quando la loro presenza è una minoranza che non detiene granché potere.
(Ehy, vale anche per tutte le battute sugli uomini e sulle donne, su quelli del Nord e del Centro e del Sud, sugli avvocati e sui salumieri – su chiunque, ma proprio chiunque, perché quel che conta è il tono, e l’aspettarsi o il non aspettarsi che la categoria menzionata abbia il diritto e il potere di farti ingoiare quella battuta. E’ il segreto per cui non è la parola usata che conta, ma il presupposto e l’intenzione.)
Mi sento in un’isola perché qui, in una città con neonazisti e donne in niqab, alla fine della giornata sono meno stressata da questi immensi dettagli di quanto lo sarei – e sono stata – altrove. E’ un piccolo delizioso paradosso che mi tengo stretto stretto al petto, cullandolo e coccolandolo. Non rende la vita meno atroce né meno folle – è un paradosso, d’altro canto – ma mi fa sentire centrata. Più pronta a più cose, in un certo senso. Esiste una parola per questo?
(Ricordatevi sempre che questa è la mia Berlino, che coesiste assieme a tante altre, che probabilmente ne sono l’esatto opposto – ci sono Berlino fatte di faide irrisolvibili, Berlino tutta-natura e Berlino solo-cemento; Berlino in cui tutti si omologano e altre in cui nessuno parla veramente con gli altri; etc etc…)