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Di lingue, sfumature & estremi.

Parlare quotidianamente in tre lingue è, a suo modo, rivelante.

Mittner (sì, sono noiosa: lo menziono sempre) interpreta lo scetticismo di Musil nei confronti dell’affidabilità della lingua come una conseguenza del suo essersi formato in un’Austria multilingue – del vivere, ossia, in una città in cui la normalità era camminare per strada ascoltando idiomi che si sa di non conoscere, di non poter capire, di non sapere – e sapere di non sapere rende volenti o nolenti umili, di quell’umiltà che è così difficile da descrivere a chi è abituatə a percepire il mondo sociale tramite una sola, unica ed egemone, lingua/cultura, e che per conseguenza tenderà a vedere tutte le altre lingue e culture come, se ben va, esotismi.
(Abuso di questo verbo, “tendere”, perché c’è sempre una più o meno minuscola percentuale di persone che se ne fotte delle tendenze e le sfata.)
Mi capita così spesso, e non solo come insegnante, di spiegare a qualcuno che le traduzioni pure non esistono. Che non c’è un modo breve e conciso di rispondere alla domanda “Come si dice X in questa lingua?”. Che non si tratta solo di sfumature, ma di essenzialità. Che, ad esempio, “No.” suona diverso in italiano, tedesco e inglese – e suona diverso persino a seconda della zona d’Italia in cui si è.
Dio e il Diavolo stanno dei dettagli, si dice (ossia, c’è chi tira in causa Dio e chi il Diavolo – facciamone un bell’indistinto Tutt’Uno). Soprattutto quando non li puoi ignorare. E non è male, sapete? Tutto diventa vivido, fonte di curiosità, persino quei piccoli rituali linguistici quotidiani che regolamentano le risposte alle domande più banali.
“Come stai?”, ad esempio.

Un po’ di tempo fa lessi un articolo di un blog di una tizia che, inglese o tedesca, viveva in Francia in un appartamento con studenti di diverse provenienze. Aveva una vita trilingue. E asseriva, con l’entusiasmo della scoperta, di avere tre distinte personalità, a seconda della lingua con cui rispondeva alla domanda:
“Come stai?”
Potrei fare questo gioco anche io, assecondarlo, e dirvi che in inglese sono leggero-menefreghista, in tedesco ritual-profonda, in italiano fatalista-serena. Ma sarebbe un gioco, appunto, basato sul fatto che dovrei interpretare dall’esterno, ascoltando la cadenza e le parole che uso, il modo in cui rispondo a una domanda. Sarebbe lo strano gioco di interpretare se stessi non sapendo quel che di sé si sa, ma guardandosi da un limitato punto di vista social-interpersonale.
Sarebbe come dire – e viene detto, e dibattuto, da secoli – che si cambia personalità a seconda del vestito che s’indossa, della situazione in cui si è. E’ vero e non è vero. E’ vero, ossia, che siamo abbastanza intelligenti e versatili (e non tutti lo sono, e chi non lo è viene fatto ricadere sotto una qualche sindrome) da declinarci a seconda del contesto, ma anche abbastanza stupidi da dimenticarci che quelle risposte, ormai automatiche, non sono declinazioni di chi siamo, e le crediamo entità a sé stanti.
Mi piace giocare con le potenziali declinazioni. Cercare di realizzare al meglio la calda cortesia con cui unə cliente tedescə si pone in negozio, e divertire gli apprendenti, pure tedeschi, che invece si auspicano che io dia loro un po’ dei modi di fare che compongono lo stereotipo italiano. Di cui anche io godo, quando torno in Italia. È meraviglioso godere di un gioco ricordandosi che è un gioco – una possibilità – e non una natura – un obbligo. Come sono meravigliosi T e G, che nella mia testa di trapiantata in Germania sono due squisiti esempi di Casanova italiano – che porterei in aula a mo’ d’esempio, di declinazione di cui godere, come porterei B da amici italiani per dir loro:
“Ecco, vedete: da quel calderone di usi, costumi, abitudini, prassi e ruoli giocati, può venir fuori anche questa quotidianità – e non è meravigliosa?”.
Vale per le lingue come vale per le classi sociali – soprattutto quando queste cominciano ad assomigliare a ceti.
Lavoro come commessa in un negozio (un po’ snob) di tè e come insegnante di italiano. La proporzione esistente tra i due stipendi è a volte riflesso della proporzione tra i modi in cui vengo vista (o viceversa?) – e quindi trattata. Riesco a godere di questa differenza – quella Me che serve (per quanto in Germania ci sia un rispetto a priori molto più pronunciato che nell’Italia che ho esperito, indipendentemente dal ruolo) e quella Me che sa (e non importa che io non veda una superiorità nel mio insegnare una lingua rispetto a chi l’apprende: balbettare, da adulti, fa sentire spesso un po’ depauperati) – perché posso esperirle entrambe, relativizzare, ma soprattutto perché relativizzo. E proprio perché mi piace immedesimarmi, mi immedesimo in chi invece non solo si trova a occupare un solo ruolo, ma oltretutto percepisce questi ruoli – siano dovuti alla classe sociale, alla lingua, alla provenienza, a whatever – come assoluti, e non relativi. M’immedesimo in chi percepisce il mondo come ingiustizia perché si sente alla base della piramide sociale; e in chi percepisce la propria vita minacciata da chi vorrebbe depredarne il potere. Cerco di capire la rabbia e frustrazione di quel “popolo”, che sta ricominciando a formarsi nella percezione pubblica, che si sente preso in giro e sfruttato da più o meno fantomatici (e assoggettanti come mostri mitologici, romanzati, resi quasi semi-divinità) “potenti”; e il senso di minaccia percepito da chi si sente nell’unica posizione legittima (sia quella d’essere italiano, tedesco, acculturato, whatever) in un mondo in cui sembra (sembra, ribadisco) sempre più facile sconfinare nei “territori” altrui.
Alla fine sembrano un po’ tutti aver ragione – e quindi tutti un po’ torto.
Dopotutto i potenti manipolatori ci sono – così come ci sono le masse incolte e cieche di rabbia. E mi domando se persone come Trump non rappresentino una nuova, modernissima, mescolanza tra le due cose. Uno di quei potentissimi simboli – come Faust e Hitler (e il paragone finisca qui, per favore) – il cui potere è proprio questo: saper far esacerbare gli estremi in noi. Farci diventare – sentendo che non solo è legittimo, ma è anche necessario – più intolleranti nei confronti dell’“inferiorità” altrui, quale essa sia, sia anche un dettaglio che necessita d’essere ingigantito sicché possa soppiantare l’intera persona; più intolleranti dinnanzi agli altrui privilegi, visti come ingiustizie storiche di un processo che si vede come mai mutato o che, peggio, va esacerbandosi.

Ho la fortuna, qui a Berlino, di avere a che fare con persone per cui non è lecito lasciarsi andare a estremi.
L’unico estremo che testimonio è, paradossalmente, quello dei liberali. Dovevo venire in Germania per farmi dire che sono una “figlia dei fiori nazista” (la prima connotazione dovuta al mio essere estremamente liberale e tollerante per quanto riguarda il modo in cui le persone sono; la secondo dovuta al mio essere piuttosto formalista e poco corruttibile per quanto riguarda la coerenza necessaria alla convivenza sociale). Ma d’altro canto dovevo venire in Germania per conoscere persone che diventano inconsapevolmente discriminanti proprio perché vogliono essere così tanto liberali da smettere di concepire libertà che non siano contemplate da quella forma di pensiero liberale che vuole salvaguardare tutti – tranne chi non vuole salvaguardare tutti. Strano paradosso, questo, da spiegare.
Ma, a parte questi estremi paradossali, la mia quotidianità offre un’atmosfera in cui non è lecito attaccare il prossimo sulla base di un pregiudizio. Non so se sia la Germania, Berlino (più probabile), o il fatto che ci attiriamo nostri simili più di quanto pensiamo (ancora più probabile), ma vivere qui mi fa sempre più sentire in un’isola felice – altro paradosso, perché Berlino, con il suo contenere tanti opposti, è una città che offre non pochi estremi. Che convivono, e da tempo, e non riesco ancora bene a capire come.
Il mondo qui, insomma, non mette alla prova la mia tolleranza – dovrei limitarmi a tollerare la varietà umana (ma quella non mi serve tollerarla: perlopiù ne godo), mentre non mi viene chiesto di tollerare chi non tollera la varietà umana. E non è poco, sapete?

E’ strana, Berlino, storicamente così variegata, permissiva, amante del costante divenire e dello sperimentare – e al contempo storicamente così importante, importante volente o nolente, anche a suo discapito, perché da città importante viene investita di enorme potere politico-sociale, sia da chi tutto vuole accogliere che da chi vorrebbe a tutti chiuderla.

ə

Penso di non aver mai scritto così tanto in tedesco in vita mia.
E, mentre cerco di farmi diventar naturali i vari “con ciò”, “dei quali”, “al fine di” (nonché tutte le varianti tedesche dei “ci” e “ne” italiani che da soli tutto riassumono), mi domando come io abbia fatto anni fa a scrivere saggi brevi in tedesco sulla letteratura e storia tedesche. Che acrobazie ho fatto, non tanto per scrivere correttamente quanto per, semplicemente, scrivere qualcosa di sensato?
Probabilmente la risposta fa rima con “esigenza” e “pietà”.

Nel giro di due settimane si è passati dalla tarda estate all’inverno inoltrato.
Fa freddo, quel freddo insistente tipico dei primi giorni di gelo, come se l’intera città – mio corpo incluso – dovesse ancora abituarsi a resistergli. Il freddo è scivolato sotto le porte, tra le finestre, attraverso i vestiti, e si è conquistato pavimenti, pareti, lembi di pelle. Sono giornate da passare in casa sepolti da una coperta, un tè al fianco (il mio è in preparazione) e all’altro il lasciarsi andare al sonno di chi è stanco di combattere il calo delle temperature.

Settimana prossima finisco il corso di tedesco B2.2 e a fine mese inizio il C1.1.
(Per chi si fosse persə* le puntate precedenti, i livelli sono: A1 – A2 – B1 – B2 – C1 – C2, a loro volta suddivisi in A1.1 – A1.2 – A2.1 – A2.2 – etc… L’A1.1 è «Io chiama Tizia e viene da Italia», più o meno. Il C2 è una strana creatura tutta immaginaria che parla l’italiano di Umberto Eco ma senza essere madrelingua.)
Ovviamente, come ho appena cercato di far intuire, i livelli del Quadro Europeo sono tutt’altro che obiettivi descrittori. Mentre frequenterò il C1.1 avrò ben poco della fluenza e del vocabolario che le descrizioni del livello suggeriscono, ma è già un bel raggiungimento. Anzi, è soprattutto una curiosità: non ho mai studiato l’inglese fino a questo livello, lasciando che fosse la “vita vera” (enfasi qui, grazie) a insegnarmi gli ultimi livelli. (C’è poi da dire che i livelli di complessità dell’inglese più complesso effettivamente usato non sfiorano neanche quelli più che raggiunti e superati dal tedesco – o dall’italiano – di pari livello. Anche perché altrimenti «Adieu, lingua di scambio internazionale!») Ma abbandoniamo il Quadro Europeo e la sua incoerente astrattezza e andiamo in direzione di un astratto più concreto:
Sto leggendo in tedesco.
Dopo essermi avventurata per le pagine di Der Vorleser, già letto in italiano (e film visto in italiano e inglese) e suggerito appositamente per il livello B2, ho fatto il salto dal trampolino: sto per finire un romanzo in tedesco che ho iniziato a leggere dal nulla, nella piena e totale e disorientante ignoranza. E – l’ho detto? – lo sto per finire. E questo è – indovinate? – rassicurante. E sapete perché?
Perché adesso posso entrare in una libreria di Berlino ed effettivamente scegliermi un libro. (Magari dalla prosa meno complessa di quello che mi attende sul comodino, definito da un madrelingua “poco comprensibile anche per unə tedescə”.) Perché sempre più potrò, sepolta da una coperta e con una tazza di tè al fianco, rilassarmi leggendo libri che posso trovare in qualsiasi libreria. Perché, insomma, costruisco passo passo la mia Gemütlichkeit a Berlino.

* Vi piace lo schwa ( ə ) usato per creare il genere neutro?
Facciamo partire le scommesse su quantə grammar nazi che sbagliano l’uso di “alcunə” e non conoscono la differenza tra “egli/lui/esso” lo troveranno insopportabile? Per chi fosse curiosə, invece, ecco la pronuncia. Trovate lo schwa in inglese, tedesco, francese e – per i conservatori dell’identità linguistica nazionale – in napoletano e piemontese. Adotta anche tu lə “ə”! (Ok, qui ho esagerato di proposito.)

Crash test.

Oggi sono stata sbattuta fuori dalla vita di una persona che dalla sua vita mi aveva già esclusa. Fa sentire come essere giudicati dopo essere già stati sbattuti all’inferno.
Ma questo è solo un incipit d’impatto atto a esorcizzare. Come lexotan per sedarsi e non essere intralciati da impulsi soverchianti mentre si rielaborano i propri pensieri.
(No, non uso lexotan: mi piacciono le sfide. E poi ormai è troppo di moda, e io tengo al mio essere radical chic.)

 

Avrei potuto cominciare con un incipit meno d’impatto e più radical chic:
Questi giorni sono (stati) una reductio ad absurdum che si è realizzata. La prossima volta che qualcuno mi dirà di smetterla con le dimostrazioni per assurdo, dirò loro che l’assurdo è dietro l’angolo. Life is stranger than fiction. Bla bla bla.
Sapete a che servono le dimostrazioni per assurdo? A giungere ai minimi termini – quei fondamentali termini con cui costruire equazioni per ogni situazione, sì che si possa sempre disporre di un utile kit per prendere una scelta. Non importa dove, come, con chi sei: con il tuo utile kit, mio caro McGyver, potrai costruire qualsiasi cosa con quel che ti trovi sottomano.
Ma non l’avevo ancora completato, il mio nuovo kit. E’ un periodo così, di rimescolamento, tipo quando si fa la valigia per il viaggio di nozze (o così mi hanno detto): qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio. Poi, quando sei in viaggio in luoghi sconosciuti, non ricordi più se avessi portato la piastra per i capelli e, se non l’hai portata, con cosa l’hai sostituita per questa nuova Te?

 

Questi sono i giorni degli scontri titanici tra etica (in ricostruzione) e pressante immanenza. Sarebbe facile, se l’etica fosse salda e non in transizione. O se l’immanenza arrivasse con esigenze meno in contraddizione con l’etica.
Il risultato è un piccolo caos tentennante. Piccolo. Ma per chi sacrifica tante cose sull’altare dell’etica è immenso. Nessuno sconto è abbastanza per un prodotto difettato, se il difetto compromette l’intero sistema. E’ veramente così? Non lo so e non lo posso sapere adesso. Ho gettato il seme e raccoglierò i frutti in futuro. Ora disorientamento e frustrazione. E mal di testa.

 

Non fraintendetemi: non confondete “etica” con “agire per realizzare il bene altrui (tuo, proprio tuo di singolo, persona che leggi)” o, variante degli ultimi giorni, “non ferire il prossimo (tu, proprio tu, persona che leggi)”. Ho ferito il prossimo a me caro per tutelare la mia etica, che altro non dovrebbe essere che un mero mezzo per trovare una configurazione che ottimizzi il rapporto tra me e la società – nel piccolo e nel grande. Non il singolo prossimo a cui tengo o che odio (sentimento raro, in me) nell’immanenza, ma il prossimo generico. L’essere umano. Il Mensch che non puoi valutare e giudicare e che potrebbe essere chiunque, te stessa inclusa. Quello che non puoi (non vuoi) rendere un Altro da te.
Ma poi arriva una reductio ad absurdum e tu ti trovi nella paradossale situazione di far penare uno specifico prossimo per mantenere quell’etica che dovrebbe renderti ottimale per il prossimo in generale senza dover rinunciare a ciò che tieni in te.
Grazie, vita.
D’altro canto tale situazione mi ha rimesso in bocca un prendere la vita con filosofia che mi mancava.
Che cosa non puoi dissacrare, quando prima di tutto dissacri te stessa?

 

Ho iniziato a scrivere questo blog perché fungesse da diario pietista, poi aggiornato in pubblica confessione catara. Perché dietro il mio giudicante dito puntato non potessi nascondere i miei peccatucci passati, neanche e soprattutto a me stessa.
E immagino, ora, che queste righe rientreranno sotto quelle che rileggerò, se mai le rileggerò, con una punta di imbarazzo.
Ma tu guarda, guarda un po’, che grottesca creaturina che tanto inutilmente si dibatte.

Polpastrelli sulla carne nuda

Drain the whole sea
Get something shiny
Something meaty for the main course
That’s a fine-looking high horse
What you got in the stable?
We’ve a lot of starving faithful
Quello che mi annienta della dinamica vittima & carnefice non è la più ingiusta sofferenza della più giusta vittima, né tantomeno l’arbitrarietà che a prima occhiata non-giustifica l’azione del carnefice.
No, ad annientarmi è che vi sia una necessaria, strutturalmente necessaria, dialettica tra le due parti.
E che non si possa parlare senza avere una lingua comune.
Ogni colpo che porti, ogni colpo che ricevi, è la stessa parola appresa in due modi diversi.
E’ difficile essere sadici con una pianta. Non impossibile, ma più difficile.

Siedo sul balcone a fumare, il posacenere accanto a me per accogliere cenere e foglie secche. Ci sono piante, sul mio balcone, da qualche tempo. Tutto è nato da una cipolla di nome Nietzsche, che ora svetta con i suoi tre fiori pronti a sbocciare. Poi sono arrivate le altre – una conifera (non so quale), erba gatta, melissa, rosmarino, due piante raccolte per strada come animali abbandonati, che nella poca terra continuamente scossa dal vento hanno piantato radici.
Siedo sul balcone a fumare e stacco foglie secche. Lo faccio con cura: le stringo tra indice e pollice e tiro appena. Se la foglia si stacca, bene. Se fa resistenza, pospongo – la maggior parte delle volte.
Non è una forma di misericordia. Brutta parola, misericordia. La chiamerei com-passione, se potessi dimostrarmi che si può empatizzare con una pianta. La chiamo “osservazione” e basta. E deduzione. Perché se non posso cogliere certe sfumature anche nella più piccola e silenziosa pianta, allora ho poca speranza di cogliere alcunché. Non sarei qui – davanti al computer per la necessità di sputar fuori quel che posso sputar fuori – se non fosse possibile cogliere nel piccolo e prossimo ciò che è grande e distante. Inutile, mi dico, cercare di pormi dinnanzi a metafore meno metaforiche, a similitudini più simili, solo per dare più credibilità alle mie conclusioni. Basti la pianta. Basti la foglia che oppone o non oppone resistenza, e la mia scelta di strattonare o non strattonare. Quel che conta non è se tiro o se non tiro, ma che io lo faccia dando ogni attenzione all’atto – beh, ogni attenzione meno quella richiesta dal sacro gesto di aspirare fumo. Lontana da me, perfezione.

Torchia tornò nella natia Venezia con una sola maledizione: l’incapacità di prescindere dalla propria consapevolezza. C’era la Guerra dei Trent’Anni, allora, che infuriava in Germania e bla bla bla. Torchia tornava da quel bla bla bla in una Venezia in cui quella sua consapevolezza, che era riuscita a soppiantargli in parte l’anima, altro non era che un bla bla bla. Basta questo a renderlo un reietto ai propri occhi.
Non sono stata in nessuna Guerra dei Trent’Anni. Proprio nessuna. Neanche per sbaglio, metafora o similitudine. Non mi sono neanche mai rotta un osso – e ci tengo a sottolinearlo ogni volta, come una sorta di marchio al contrario: per ricordare a me stessa e agli altri quanto sono fortunata. Sono il campione dei nostri privilegi. Ho vissuto per anni con la tentazione di spaccarmene qualcuno per sentirmi più vicina a quel mondo che, statisticamente, di ossa rotte ne ha un bel po’. Ho travasato questa tentazione in Torchia e ho spedito lui in guerra, seduta scomoda sulla mia comoda poltrona, per poi osservare che cosa sarebbe accaduto.
Che cosa accadrebbe se…?
Chimica introspettiva. Per quella mia certa tendenza a vivere morbosamente il melodramma, gli ho dato un malus: l’ho reso ancor più incapace di quanto temevo di essere io stessa. L’ho reso un principino dalle unghie fragili, un fiore dalla vita breve – come quelli che, sul mio balcone, non resistono al vento gelido – e poi, sadomasochista, l’ho fatto sopravvivere. Facile cancellare le proprie brutture. Facile ricominciare da capo. Ma no, Torchia mi serviva vivo e sfregiato di ritorno alla natia Venezia.
Che cosa accadrebbe se…?
Non sono Torchia.
Non posso sapere che cosa io sia – la prova del fuoco della Guerra dei Trent’Anni l’ha fatta lui, non io – ma so di non essere Torchia.
E oggi so che forse Torchia avrebbe potuto essere tutt’altra cosa – non, ad esempio, lo psicopatico in cerca di remissione e annientamento che è divenuto. Oggi so che scarnificare un individuo non lo rende necessariamente più vero, ma solo più scarnificato. Ben venga per chi vuole conoscerlo nei dettagli, per chi ama ripassare in punta di polpastrelli l’anatomia umana; ben venga per costoro – da cui posso tutt’altro che escludermi. Ma non sono più così certa che la scarnificazione abbia il magico potere di rendere più vera e pura una persona. Non per la persona stessa.
Non te lo augurerei più, Torchia – ma ormai il danno è fatto, e c’est la vie.

Ma se fossi Torchia – se avessi avuto la mia Guerra dei Trent’Anni – ora mi sarebbe più semplice sputare su questo blog. Per quel non-so-che, sapete, che fa sì che ci si senta meno stupidi a parlare di sensazioni che derivano da situazioni che si conoscono nell’immanente materialità. Mi sento invece una sacca di riflessioni e sentori per procura. Auto-procura, suppongo. Se fossi Torchia, che nacque voyeur, me la sarei auto-procurata con quel morboso gusto con cui ci si prendono tragedie altrui sulle spalle. Come cercarsi la sifilide per poter dire che si è gran scopatori. Sarà pure un problemaccio fastidioso, ma vuoi mettere…? C’è chi si spacca l’osso del collo per vanti ben minori.
Ma non sono (più) Torchia: la procura è una conseguenza, non una causa. La causa è sacra e importante abbastanza per farmi ritrovare qui, oggi, a sputare sul blog quel che riesco a sputare. Ci avrei creduto, quando aprii questo blog a mo’ di diario pietistico, che mi sarei ritrovata a scrivere ermeticamente?
Ti amodio, vita, perché non mi fai mai annoiare.
Guarda a questa situazione, ad esempio, di una post-modernità esemplare. Dicono che per noi post-moderni il mondo abbia perso senso per troppa consapevolezza della relatività. Io me ne sto qui, comoda sulla mia comoda poltrona, a sputacchiare rimuginate parole con la consapevolezza che nel mondo esistono vite così tanto diverse dalla mia che, se dovessi trovarmi a viverle, probabilmente non le riconoscerei neanche come tali. E allora che cosa esiste, vita, se nulla è certo?
E fin qui tutto facile.
Ma siamo arrivati al post-modernismo 2.0. Quelle consapevolezze che prima erano ipotetiche – non perciò meno vere, per carità – si fanno ora tangibili come odori.
Cammino per il corridoio di casa – che conosco e conosco e conosco – e la consapevolezza di un altro mondo non si stacca dalle mie caviglie. Dalle mie cosce. Dalle mie viscere.
E mi basta una canzone, a volte – una canzone che non c’entra un cazzo, ovviamente, se non nella mia testa – per ripiombare lì, in quel modo di percepire il mondo. Che amo, e non per procura. Perché i polpastrelli sullo scorticato li ho passati, ed è esattamente come passare i polpastrelli su un qualsiasi brano di carne amata: mentre accarezzi causando brividi, i brividi attraversano te. Stupendi autogol.
E fin qui tutto facile.
Ma poi mi trovo a camminare per il conosciuto corridoio portandomi appresso sensazioni che non ritrovo attorno a me. Le vorrei ritrovare, ovviamente, per dialogare. Per comunicare. Ma mi sento come se avessi vissuto per un anno in Finlandia (un anno riassunto in pochissimi, intensissimi, giorni) e ora mi trovassi qui, unica e sola a parlare questa lingua. Perché altrimenti la si perde, sapete. E sarà pur vero – lo so per esperienza – che basta re-immergersi nel contesto per riportarla a galla ma intanto, cazzo, a quella lingua ci tieni. I termini che hai appreso ti hanno svelato parti di te che non conoscevi e/o non ricordavi (o che conoscevi e ricordavi ma avevi messo da parte perché monadi senza riflessi al di fuori di te – fino a quel momento), e non vuoi smettere di viverle. E così, monade, mi chiudo in me attingendo alla memoria – avrei creduto, io dissacratrice della sacralità del ricordo, che mi sarei trovata a fare ciò, vita? – per mantenere nel presente quella consapevolezza. Non perché sia bello averla in me. Il post-modernismo 2.0 ha trasceso l’asse bello/brutto, piacevole/spiacevole, similmente a come il post-modernismo di prima versione trascende l’asse giusto/ingiusto. La consapevolezza è e basta. Essa è. E in quell’essere c’è una bella fetta di me. Si può vivere senza, certamente. Ma si può vivere anche con tutte le ossa rotte.

E così siedo sul balcone, accendo una sigaretta, stringo una foglia tra indice e pollice e tiro.


(Testo tratto da: Take Me to Church, Hozier)

Non avrai altro Io all’infuori di questo.

Ennesimo racconto concluso e mandato per avere un feedback. S’intitola “Mesa Blues” fondamentalmente perché ho sempre desiderato avere un titolo che finisse in “Blues”. E poi per qualche altro dettaglio, come il fatto che dovrebbe essere un Mesa Blues.

Ascolto la cover di un tizio che mi trovo tra i preferiti di YouTube. Non conosco la cover, ma conosco il tizio – che incipita il video con un pesante accento del Nord dell’Inghilterra, e così ricordo l’incontro in ostello, il suo bere e bere e bere, e sciogliersi in quel mix di simpatia giullaresca e malinconia e oso-guarda-quanto-oso degli inglesi che si ubriacano.
Mi hanno detto che per fare amicizia con un inglese devi ubriacartici.
Solo con gli inglesi?
In ostello si faceva chiamare “Captain”.
E’ bello avere nei propri ricordi qualcuno che si fa chiamare “Captain” come è bello avere un racconto intitolato “Mesa Blues” – con la stessa malinconia.

Dopo aver finito il racconto, ho riletto una recensione sull’ultimo romanzo di Salvatori scritta qualche giorno fa, lirica e analitica quanto il racconto è colloquiale e inconsapevole.
Mi dicevano, come dicevano anche a voi, che crescendo avrei trovato una mia identità, e quindi un mio stile, un mio approccio, delle mie preferenze.
Dire “cazzate” sarebbe riduttivo e inesatto, perché c’è un filo rosso che rende mio quel che io ho scritto, ma credo sia ben distante da quell’idea di univocità che mi è stata promessa con la magnanimità di una minaccia.
(Ho sovente avuto, nella mia infanzia e adolescenza, l’impressione che gli adulti mi dicessero certe cose per invidia – che non avrei potuto io perché non potevano loro, che non ce l’avrei fatta io perché non ce l’avevano fatta loro. Sospetto di aver avuto ragione, allora.)

Ho il cervello troppo vuoto per trovare un titolo accattivante, spiacente.

Aggiornamenti insoddisfacenti e sterili, ma devo e voglio aggiornare un po’ di persone, e farlo alle 00:14 mentre preparo una presentazione mi sembra il momento giusto – dato che nessun momento lo è:

1) Una serie di presentazioni che non vengono valutate ma che dobbiamo fare comunque vanno bene, nel senso che il mio gruppo è in vetta nella classifica dei giudizi positivi.

2) La presentazione fatta ieri, e che viene valutata, è andata bene. Il professore era entusiasta. Così tanto che ha cominciato a parlarci della propria vita.

3) Ho una presentazione settimana prossima, anche questa valutata, basata sul saggio “Hayekian Political Economy and the Limits of Deliberative Democracy”, saggio scelto da me e che contiene la parola “epistemologico” almeno tre volte, per rendermi soddisfatta (a ognuno i propri parametri). Fatta questa, avrò finito con le presentazioni, ma…

4) Per il 7 devo consegnare un saggio che non ho neanche iniziato.

5) Ma mi sento molto spronata, dato che i miei colleghi/compagni/Kommilitonen/fate vobis sono tutte personcine ammirabili.

6) Ogni tanto il mio accento viene interpretato come “slavic”. Non credo capirò il perché. Comunque è l’alternativa a “tedesco”.

7) Mi manca tanto del cibo. Sì, sto generalizzando ed estremizzando un semplice: “Il cibo che c’è qui mi convince così poco che per disprezzo lo escludo dalla categoria ‘cibo’.” Non è che non mi piaccia, eh. Semplicemente è poco credibile.

8) Per fortuna c’è la Guinness, dato che le bianche vengono vendute come fossero rari e pregiati vini. La Guinness e la Murphy. E un pub a cinque minuti da casa – un piccolo pub, molto “cozy”, senza pretese, amichevole, quasi per famiglie – se non fosse che questi ubriaconi d’inglesi non portano i bambini al pub. Ho letto un articolo su un tizio multato per aver, in un pub, rovesciato della birra in testa a un bambino. L’articolo non specificava se il gesto fosse voluto o non voluto.

9) Il sidro, nei posti giusti, è ottimo.

10) Sì, sto parlando ancora di alcol. D’altro canto, se il cibo fa schifo, e non si può fumare negli ambienti chiusi (neanche in casa mia, no), la gente dovrà pur sfogarsi da qualche parte, no?

11) Anche il tempo fa schifo. E’ il secondo argomento toccato dopo l’alcol nell’inutile chiacchierare che non raramente pop-uppa nella vita quotidiana quando incontri sconosciuti.

12) Il terzo è la regina, ma è colpa mia.

13) Voglio sedermi sul divano nella mia casa italiana, con una sigaretta nella destra e una birra nella sinistra. Lo vorrò per sempre. Lo vorrò finché non lo avrò fatto, e poi ancora e ancora quando tornerò in Inghilterra. Sta diventando un sogno erotico – ora capite perché odio i tabù?

14) Mi manca anche il sedere in una casa, o in un locale, che non abbia un retrogusto “vecchio”. Non ho ancora capito se Bath sa di vecchio perché gli inglesi sono fissati con il vecchiume (tipo la Regina), o se sa di vecchio perché gli inglesi se ne fregano delle condizioni delle loro abitazioni e dei loro locali.

14bis) Mi sono persa un congiuntivo?

15) Oggi ho conosciuto un 45enne canadese che sta facendo ricerca sulla scrittura in ambito accademico.
Due giorni fa ho conosciuto un londinese incredibilmente interessante e critico.
Invero sono entrambe persone che, in un contesto più rarefatto, avrebbero occupato paragrafi e paragrafi di questo blog. Ma sono in un ambiente saturo – di nuove conoscenze, di cose interessanti, di nuove conoscenze interessanti. Vorrei elencarvele tutte – le nuove conoscenze, le cose interessanti, le nuove conoscenze interessanti – ma mi manca il tempo. Non saprò spiegarvi mai, credo, quanto ciò sia frustrante.

16) Non saprò mai spiegarvi un sacco delle cose che mi stanno accadendo, e questo amplia la frustrazione. Semplicemente, viviamo in mondi diversi. Dovrei prima spiegarvi tutte le premesse – e fare magie come “rendere a parole l’effetto della pioggia qui”. Siamo umili. Beh, io lo sarò, almeno in questo frangente: non ne sono in grado. Lo saprò fare imperfettamente. Mi riuscirà invece molto bene risultarvi diversa, quando ci incontreremo, e ciò perché la legge di Murphy impera.

17) Ho detto che la stragrande maggioranza degli studenti nel mio corso sono tedeschi?

18) Ho detto che tipo l’85% degli studenti nel mio corso parla tedesco?

19) Vi ho detto quante battute faccio circa il fatto che i tedeschi vogliono riconquistare l’Europa?

20) Vi ho detto che la risposta di una tedesca è stata “Perché, non siamo già i più forti?””

21) Dovrei dirvi che tale esperienza mi sta allontanando tantissimo non solo da una grande fetta di italiani, ma in generale da una grande fetta di persone. Qui discutiamo dell’Europa passandoci stralci e concetti e riflessioni partorite da professori che studiano la faccenda da anni. Il discorso quotidiano attorno all’Europa e alla crisi è vagamente meno fondato. Me ne sono resa conto drammaticamente quando ho letto, tra i titoli dei papabili saggi da scrivere, una cosa come “Descrivi gli effetti che la crisi economica ha avuto sulla gestione di [qualcosa] dell’Unione Europea”. Ma questo devo avervelo già detto. Nel dettaglio, ho realizzato che una incredibilmente ampia fetta di mie conoscenze discute di ciò con grande frequenza, e non lo fa in vece d’esperto – del settore che volete. Ma scrivere un saggio significa:
– Riportare le fonti. Le fonti che l’ampia fetta di cui sopra riporta sono giornali vari, di media, e i giornali non valgono come fonte quando scrivi un saggio del genere (i saggi vanno bene per riportare opinioni, non dati su cui lavorare).
– Saper dimostrare con reasoning. Il che implica lo scartare “il senso comune”, i sottintesi che ci uniscono tutti, il populismo bonario e tutti quei cuscinetti che permettono a chiunque di disquisire delle conseguenze della crisi sull’Unione Europea.
Non potevo non diventare umile, dinnanzi a una domanda del genere. Mi terrorizza – come molte altre. Mi terrorizza anche il pensare che odierò un po’ di più tutte le persone che si improvvisano esperte del settore.

22) Voglio diventare una lobbysta o il suo equivalente per poter essere equidistante rispetto a:
a) La popolazione sofferente e lamentosa e rivoltosa e in crescita, per cui “crisi” non significa ciò che puoi leggere in mille libri ma l’effetto tangibile sulla tua vita – e se ha un effetto tangibile sulla tua vita e non su quella degli eurocrati, perché tu dovresti avere meno diritto di loro di parlare della crisi? Perdindirindina, dovresti averne di più!
b) Gli esperti del settore, gli eurocrati, i ricercatori, e tutte quelle categorie che sanno spiegare con dovizia di particolari la crisi e le sue ragioni, benché ne percepiscano (e concepiscano) molto meno gli effetti.
Voglio stare lì in mezzo, equidistante, perché non sopporto nessuna delle due categorie – non sopporto la prima quando vaneggia sulla seconda, non sopporto la seconda quando neanche concepisce la prima.

23) Buonanotte.

Europeismi e altri ismi.

A mi mancherà moltissimo. “A” non è abbastanza, realizzo, perché ho conosciuto troppe persone, troppe il cui nome inizia con una “A”, quindi A diventerà ANY, perché A è newyorkese, e lo è tanto, ma proprio tanto, almeno nella misura in cui la fiction mi ha insegnato come un newyorkese dovrebbe apparire.
Comunque, ANY mi mancherà tanto.

V mi manca già.
Sono andata a trovarlo in ufficio, dopo un rincorrersi durato giorni.
Sono sempre occupata – sempre.
Mi libero per segmenti di 15-30 minuti, e faccio tutto il possibile per liberarmi, ma non è abbastanza.
Così, dopo aver discusso con I come strutturare la nostra parte di presentazione, sono andata alla ricerca dell’ufficio di V, trovandolo (e sentendomi quindi sagace, dato che l’università tende a essere un labirinto).
V mi manca già perché mi dà l’impressione di avere nostalgia di se stesso.
Gli ho domandato se ha intenzione, finito il dottorato, di tornare in Grecia. Mi ha risposto che non c’è nulla per cui tornare in Grecia.
Non so se le due cose – quella strana apparente nostalgia e il nulla in Grecia – siano collegate. V ha detto che aspetta una rivoluzione – non in Grecia, ma in un più generico “qui”. Non so se le due cose – il nulla in Grecia e le sue aspettative – siano collegate.

So, però, che mi manca una birra.
Mi mancava il mancarmi una birra. Bisogna vivere in certi luoghi – per ora conosco Germania e Inghilterra – per significare il “mi manca un birra”. Una birra in Italia non è la stessa cosa. Non è altrettanto buona, a meno che non si vada in un birrificio, ma in un birrificio non c’è quell’atmosfera di quartiere che tanto amo.
Il giorno in cui sono arrivata a Bath mi sono detta che, posati i bagagli, sarei andata alla ricerca di un pub per bermi una birra guardando la TV. Di fatto, l’ho fatto per sere e sere e sere consecutive. Ora, cerchiamo una via di mezzo.

E’ incredibile la facilità con cui ci si può appropriare di Bath. Basta posare il culo per una volta in un luogo e quel luogo diventa una specie di propaggine di casa tua. Andare a cenare in pigiama al pub è stato il picco massimo, ma ora cavalco vie di mezzo.
Sento l’università come una succursale di casa mia. Non so se ciò derivi dalla facilità con cui le persone si appropriano di Bath, o se derivi dal fatto che la casa in cui vivo non è esattamente casa mia (è in affitto, è ancora spoglia, a cinquanta centimetri da me, oltre alla finestra, ci sono ragni di ogni dimensione ad attendermi – letteralmente a cinquanta centimetri, letteralmente “di ogni dimensione”).

E’ facile sentirsi a casa all’interno del programma Euromaster.
Siamo pochi, per la maggior parte internazionali, e ci sentiamo nel fulcro caldo e pulsante del cambiamento. Bath trasfigura, divenendo un centro ipotetico dell’Europa.
So che guardiamo all’Europa con un’ottica poco condivisa. Ieri sera, scorrendo un manuale, sono inciampata in un dato statistico che già conoscevo: tendenzialmente le persone a favore dell’Europa – in svariati sensi – hanno meno di 50 anni e sono più istruite della media (e io sono ancora shockata da quando ho letto che solo il 19% degli italiani è laureato). Non so se le due cose – l’istruzione e l’europeismo – siano collegate. Forse l’europeismo deriva più dal clima che in certi circoli gira. E’ più facile essere a favore dell’Europa quando parli inglese (e altre lingue) e sei all’università e viaggi.

Diventerò umile.
Il carico di letture da fare è tale che sto cercando un nuovo metodo di studio. Il mio solito, profondo e accurato, metodo non va bene: non ho abbastanza tempo. Cerco di ottimizzarmi.
Il tenore delle aspettative è abnorme, a tratti. Tra i saggi che si possono scegliere per un corso figura: “What impact has the current financial crisis had on the management of EU economic policy?” Mi dico che gente e gente e gente, a ogni livello, dibatte ciò in ogni momento, polemizza e ragiona, e io dovrei scriverci un saggio, ossia un insieme ragionato di fonti e collegamenti?
Stavolta opterò per l’umiltà, scegliendo un altro titolo.

Sorta di aggiornamento II

Il pub è sempre lo stesso (Belushi’s), e anche le persone sono sempre le stesse, ossia: 3-4 dell’enorme gruppo di persone che ho conosciuto.
B e M chiacchierano, ancora per qualche minuto. Poi lui, francese, accompagnerà lei, spagnola, in stazione. Lei lavora come au-pair in un paesino fuori Bath. Lui è venuto qui per cercare lavoro: attualmente lavora in un ristorante francese come cameriere e dà lezioni di francese. Entro due mesi lei si trasferirà a Bath, e potranno finalmente spendere un po’ di tempo assieme.
R chiacchiera con loro, non so in che lingua. Spagnolo, suppongo.
Per le nove arriveranno M, catalana (non spagnola, catalana), e T, olandese, con un lodevole talento per le lingue. B, il turco, era stanco, e forse stasera non lo vedremo.
Questo blog dovrebbe, tra le altre cose, servire da aggiornamento, ma non credo che potrà mai salvare in memoria queste ultime due settimane. Troppe cose sono accadute, troppe poche ne ricordo. E’ un unico enorme caos, devastato dal mio pensare e sognare in inglese. Se avevo una qualche fissazione circa il controllare le cose, questo periodo deve aver funto da terapia d’urto. Vado a letto e, non appena un ricordo di me stessa pop-uppa dall’oberata mente, mi vivo come si vive un ricordo: con una vaga, dolce, nostalgia.
Intendiamoci: ovunque si vada nel mondo non si sfugge a noi stessi. Sono sempre la solita riconoscibile me stessa – e infatti sono stata riconosciuta per ciò che sono – ma una me stessa che al momento non riesce a osservarsi, né dall’esterno né dall’interno.
Ho studiato a lungo questo stato di perdita d’identità, all’università. Hanno sempre cercato di rifilarmelo come un che di negativo, e non ci ho voluto credere, né ci credo ora. E’ solo estremamente stressante, come stressante è ogni tentativo di passare dal conosciuto allo sconosciuto. Che novità, nevvero?
Insomma, sono stressata, ma è la vita. Una delle tante tra quelle che ho conosciuto, che avrei potuto conoscere ma non ho conosciuto, che sto conoscendo, che conoscerò. Una vita precaria, senza uno spazio mio, colonizzando il pub per sopravvivere (con B che mi ha fatto notare che “pub” significa “public house”).
Insomma, sono stressata più di quanto potrei in teoria sopportare. Ma la stanchezza è stata anche peggiore. Sono giunta a un punto di rottura quando mi sono trovata seduta sul divano nel pub, chiedendomi se – se mi fossi alzata – sarei svenuta. Mi sono anche ubriacata, una volta, l’unica volta (e ciò è preoccupante, considerando quanto ho bevuto quotidianamente – sono una vecchia ubriacona, ormai), abbastanza da perdermi (amo perdermi in città che conosco poco, pare) nel bel mezzo della notte.
Domani iniziano i corsi. Quest’anno frequenterò un master che non è interessante, ma di più. “Contemporary European Studies” e proprio ora, in questo momento storico.
… Comunque, è terribile esprimermi in questo modo. Prima o poi il mio italiano ritornerà a galla, assieme alla capacità di ragionare. Già entrare nel mio studio-flat (il 2 o il 3) migliorerà la situazione.
Comunque, tutto ciò per dire: sono viva.
Insomma… Comunque.

Di fanatismi e distrazioni.

Una cappa di umidità asfissiante è nuovamente scesa, e così dovrò aspettare che si avvicini il tramonto – in questo luogo in cui il crepuscolo è così breve, e impercettibile, da confondersi con tramonto o notte – per i miei amati esercizi.
Ho coinvolto VB, che si stende come me a contare tre serie da dieci per volta. Le faccio sconti su addominali e braccia, e la faccio massacrare al mio posto sulle gambe.
Mi dà interiormente della “fanatica”, intendendo “fanatica di sé”, mentre mi guardo addome, braccia e avambracci dicendole:
“Guarda! E’ riapparso un muscolo!”
“Guarda come si è ingrossato il bicipite!”
“Awwww, guarda gli addominali alti gh gh gh!”

Ieri niente esercizi, ma niente riposo.
Ridicolmente, e come è giusto che sia, un’ora di seduta dall’estetista mi stravolge più di mezz’ora di esercizi.
Odio la ceretta, in ogni salsa, da ogni angolazione e quale sia il motivo che mi spinge a farla. L’unico modo in cui riesco ad accettarla consiste nel far mia l’odiata ottica dell’espiazione, dicendomi che tanta sofferenza sicuramente (?) porterà in automatico a qualcosa di buono. Di per sé. E’ l’ottica dell’espiazione, no?
Prima dell’ora di centellinato insopportabile dolore-fastidio, ho giocato con Ari, il pincher dell’estetista, il dobermann in miniatura che mi ha preso in simpatia e ha passato dieci minuti eleggendo la mia mano a giocattolo da rincorrere e mordicchiare.
Volevo mostrare a VB come un cane nell’atto di giocare morda con cortesia, modulando la forza con cui serra le mascelle a seconda della reazione più o meno dolorante.
Volevo mostrarglielo perché Eva, la pitbull afona che la madre di VB sta per portarsi a casa, è una pitbull, è una pitbull e sta ancora in canile e non a casa, e così diviene mitologica nel proprio essere pitbull: i cani da combattimento su cui sono sorte tante di quelle leggende che al confronto i pedofili possono sentirsi poco marchiati dal timore sociale. Eva che ignora gli altri cani, potendo, e che deve stare da sola in gabbia perché l’ultima volta che ha incrociato un molosso ha attaccato e ne è uscita con cento punti di sutura. Eva che ogni tanto, raramente ma inesorabile, sbarra i suoi occhietti vivacissimi su un target, come quella volta che l’ha fatto con il manico di una scopa, per poi azzannarlo alla velocità della luce facendo scappare l’inserviente. Eva che solleva discussioni sul tipo di guinzaglio da usare, museruola o non museruola, come si fodererà la cuccia che abbiamo montato per lei con i barboncini del quartiere.
E’ una cuccia in legno di abete, credo, o quercia – insomma, non ricordo e non conosco abbastanza l’ambito da dedurlo – che io e VB abbiamo montato sul terrazzo di casa sua rimpiangendo Ikea e il gioco facile. Vorrei trovare la persona che ne ha progettato il montaggio, con viti negli angoli interni che mi hanno costretto a posizioni ridicole e a un paio di vesciche, e sensibilizzarla alle esigenze di una donna sulla sessantina che vuole adottare una pitbull.
La madre di VB, espressivamente abbastanza asciutta, ha raccolto qualche secondo di silenzio per ringraziarmi con poche frasi dense, dicendomi che – senza me e VB – portare Eva a casa sarebbe stato difficile. Montare la cuccia, e la pellicola di plastica sul terrazzino per proteggere Eva dal vento, e i vasi da spostare, e altri pesi e piccole fatiche che per i suoi doloretti sarebbero stati immensi.
Ammetto di aver sudato sotto al sole asfissiante di questi luoghi, senza riserve, un po’ per sollevare un confronto tra me e l’Uomo Di Casa. Quell’uomo che giorni fa è sceso per strada, ha guardato me trasportare chili di pomodori e ridendo ha deriso la mia espressione un po’ affaticata. A cui è stato chiesto perché fosse sceso, che ha risposto che era venuto ad aiutarci con i pomodori, gli è stato fatto notare che li avevamo già presi tutti, si è offerto imbarazzato di alleviarmi da un sacchetto, e l’ha preso in mano accusando un peso che non si aspettvta. Quello stesso uomo che qualche giorno dopo mi ha detto “Provo io, che sono più forte.” e ha constatato l’ovvio: che quelle viti non andavano più a fondo. E via discorrendo.
Non sollevo paragoni per il mero gusto di farlo – benché questa sia una pratica a cui sono particolarmente affezionata. Lo faccio per destabilizzare strutture. Lo faccio per far vacillare l’ovvio – l’ovvietà che vorrebbe quell’uomo più forte di me, in cui crede, e che non viene confutata a parole. A parole, quando ho raccontato alla madre di VB l’episodio delle viti, ne ha riso e ha commentato abbassando la voce, perché lui non la sentisse sminuire il suo ruolo. Lo faccio per smorzare quel ruolo che lo investe di fatiche a lui riservate, che lo esentano da altri generi di fatica: apparecchiare, sparecchiare, portare bottiglie d’acqua per due piani di scale e via discorrendo – la vecchia fiaba dei ruoli genderizzati in casa.
Sollevo paragoni anche per opportunismo, dato che la madre di VB mi ha eletto a un ruolo posto a metà tra il genero e l’attendente: mi fa sgobbare. Mi porta a fare la spesa cercando di nuorizzarmi per mezzo di consigli sull’economia domestica, rinuncia sorridendone, e carica sacchetti e sacchetti di pesi che da sola non riuscirebbe a portare. Mi nuorizzo per alleviarla da alcune faccende quotidiane, trovandomi a cucinare per lei e il marito, e rispondo con un sorriso interiore ai consigli che mi chiede per farmi sentire parte della famiglia.
Mi sento una turista di usi e costumi aborigeni, che approccio come un parrucchierato esploratore da TV a pagamento farebbe in un documentario: resetto me stessa e provo il nuovo. Provo le faccende domestiche, la ricezione di consigli sul buon mantenimento di una famiglia che non formerò, perlomeno non con quella struttura, partecipo e rendo partecipi di piccole ovvietà. Quel modo di approcciarsi a cose che nella propria quotidianità si troverebbe assurde, ma che per una parentesi esplorativa si fanno diventare al pari delle proprie.


Ho letto L’apicoltore di Maxence Fermine, e ho riflettuto su questi narratori contemporanei manieristi. Perché ho pensato “Ecco cos’è il manierismo oggi!” finendolo, e rimasticando tra le sinapsi la struttura da fiaba morale, la retorica da saggio di periferia contemporaneo, e non trovando i contenuti che tale struttura e tale retorica avrebbero dovuto sorreggere.

Ho letto L’ombra e la meridiana di Maurensig, o meglio: ho letto Maurensig, stavolta L’ombra e la meridiana.
Maurensig è uno di quegli autori che fungono da casetta confortevole: lo conosco abbastanza bene, lo apprezzo moderatamente, ne conosco i difetti e le ripetizioni, ne degusto il valore individuale.
Quando, leggendolo, mi trovo a pensare che è veramente bravo, significa che i miei standard del periodo sono bassi. Intendiamoci: penso sinceramente che Maurensig sia bravo. E’ un ottimo osservatore. Sa, come credo dicesse Ungaretti – o quale altro poeta? – unire cose tra loro lontane. Ha una prosa adatta: forma e contenuto aderiscono bene l’una con l’altro. Ma finisce qui – sebbene quel “qui” sia molto al di sopra della maggior parte della letteratura che mi capita sottomano. Ma c’è un ma, benché non sappia bene quale sia.

Ho letto questi due romanzi in due notti. Sono brevi, e al confronto con Anni di cani si Grass divengono brevissimi.

Ho cominciato a leggere Lo scudo di Talos di Manfredi, a voce alta, con VB. Una nostra tradizione, il leggere a voce alta, mutuata da The Reader per affetto.
Lo scudo di Talos era in un autogrill, tra Monteromano e Civitavecchia, mentre bevevamo un caffè. Me l’ha indicato lei, mi ha rivolto uno sguardo noncurantemente interrogativo, ho risposto con un noncurante annuire.
Acquistato, VB mi ha detto che lo avremmo letto dopo la quotidiana sessione di esercizi. Le ho risposto che avrei urlato “SPARTANI!” a inizio e fine lettura. Nulla di ciò è stato seguito, ma abbiamo cominciato a leggerlo.


Fare esercizi fa bene al corpo e alla mente, come la Redbull e gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.
Fa bene alla sottoscritta perché le lascia quella spossatezza da convalescente senza più doveri che fatico tanto a raggiungere, essendo una sedentaria speculativa. Ho bisogno di svuotarmi, ma non so farlo, così ho bisogno di farmi svuotare.
Sbattermi un po’ mi permette di rivendermi una mezza menzogna: “Hai fatto il tuo dovere.” Non è il mio dovere, ma ciò che conta è il percepirlo come tale.
A differenza dell’odiata ceretta, che è un migliorarsi per mezzo della sopportazione, dell’impotenza, del doversi arrendere, l’esercizio fisico è un esercizio di volontà, di ascolto di me stessa, di ragionare con il corpo anziché con la mente.
E poi ci sono i benefici secondari. Sono una fanatica, pensa VB, e mi accontento di piccole cose. Mi basta indossare la stessa maglietta dopo tre giorni e sentire come, ora, si tende sulle spalle. Come pieghe nuove si formino. Come il quadricipite formicoli. Mi bastano queste infinitesimali cazzate per distrarmi e non annoiarmi mentre cammino per strada e non ho altro da fare.

Amnesia.

I had to write “a provisional indication of the subject area in which I might write my dissertation” for the MA course I’m applying for. Here the results:

– European studies: interdisciplinary approach (history, sociology, cultural studies, international and European relations, soft power) to the “nationalism” issue. Issue already investigated in the course of my studies (paper written for a course on Canadian Studies: “’The Imperialist’ and the roots of the ‘failure of Canada’”).
– European studies: interdisciplinary approach (history, economics, law, international and European relations, soft power) to the “prison system” issue. Issue already investigated in my bachelor’s thesis (“De Beers and Segregation: A Vicious Circle”).

For the first time in my life I can list my areas of interest. I wonder whether I should feel comforted or claustrophobic. No wonder I ask myself such a question, due to that “prison system” I’ve just written.


I’m having strange dreams. It all started after writing my thesis, when I told myself I had gotten too “barren”, which is like feeling dead if you see yourself as an artist.
I fall asleep focusing on the narrative I’m working on. I’m structuring the plot itself when I’m awake – now I know the plot is set somewhere near Demyansk, somewhere between December 1941 and February 1942, I know who was there (Army Group North, Einsatzgruppe A, SS Division Totenkopf and/or SS Polizei Division), I know Mr Protagonist is unlucky and what will happen to him, who will save him and that he’ll be wandering throughout Europe with three people. I know one must flee, one must be left alone, one must die. I know, of course, what happened in Europe in that period, and I’m merging historical info with the plot. I found out / decided three characters are orphans, and so realized I must decide what role the Lebensborn project will have in my plot. But I lack all the rest – that “rest” that turns a set of events into a narrative.
Therefore, I fall asleep focusing on details. I try to leave my mind wide open. I actually don’t know what an artist is, but I know I need to be able to conceive other worldviews if I want to speak about other worldviews. It all started when I dreamed about the core of this plot. It wasn’t a well-structured dream, but it was revealing – it revealed me how a relationship between two people could, and can, be. I endured this bad-structured plot from their points of view. I woke up and tried to write down everything I could remember, but I could scarcely remember and therefore mentalize what I had just dreamed. It’s like when I try to describe an expression I see everyday but I never need to describe. I think most things just pass before our eyes and then flee, leaving a subtle footprint of their existence. We saw them, remember them, but can’t summon them again. Our memories are flawed: a mixture or recorded data and assumptions based on what we’re already aware of.
Therefore, I fall asleep focusing on details. I try to enter these characters’ worldviews once again. I try to remember – to summon – the way they saw each other, their expectations, and above all what they took for granted. They didn’t speak much in that dream: there was no need. I must give up being myself, when I fall asleep, and beg them to let me enter their minds. Theirs and that of other characters I’ve given birth to since that dream.
I’ve been trying to leave my mind wide open and it’s working, and it’s stressful. I knew it would be. I knew it was the only way to feel alive.