Autore: diosbios

Di lingue, sfumature & estremi.

Parlare quotidianamente in tre lingue è, a suo modo, rivelante.

Mittner (sì, sono noiosa: lo menziono sempre) interpreta lo scetticismo di Musil nei confronti dell’affidabilità della lingua come una conseguenza del suo essersi formato in un’Austria multilingue – del vivere, ossia, in una città in cui la normalità era camminare per strada ascoltando idiomi che si sa di non conoscere, di non poter capire, di non sapere – e sapere di non sapere rende volenti o nolenti umili, di quell’umiltà che è così difficile da descrivere a chi è abituatə a percepire il mondo sociale tramite una sola, unica ed egemone, lingua/cultura, e che per conseguenza tenderà a vedere tutte le altre lingue e culture come, se ben va, esotismi.
(Abuso di questo verbo, “tendere”, perché c’è sempre una più o meno minuscola percentuale di persone che se ne fotte delle tendenze e le sfata.)
Mi capita così spesso, e non solo come insegnante, di spiegare a qualcuno che le traduzioni pure non esistono. Che non c’è un modo breve e conciso di rispondere alla domanda “Come si dice X in questa lingua?”. Che non si tratta solo di sfumature, ma di essenzialità. Che, ad esempio, “No.” suona diverso in italiano, tedesco e inglese – e suona diverso persino a seconda della zona d’Italia in cui si è.
Dio e il Diavolo stanno dei dettagli, si dice (ossia, c’è chi tira in causa Dio e chi il Diavolo – facciamone un bell’indistinto Tutt’Uno). Soprattutto quando non li puoi ignorare. E non è male, sapete? Tutto diventa vivido, fonte di curiosità, persino quei piccoli rituali linguistici quotidiani che regolamentano le risposte alle domande più banali.
“Come stai?”, ad esempio.

Un po’ di tempo fa lessi un articolo di un blog di una tizia che, inglese o tedesca, viveva in Francia in un appartamento con studenti di diverse provenienze. Aveva una vita trilingue. E asseriva, con l’entusiasmo della scoperta, di avere tre distinte personalità, a seconda della lingua con cui rispondeva alla domanda:
“Come stai?”
Potrei fare questo gioco anche io, assecondarlo, e dirvi che in inglese sono leggero-menefreghista, in tedesco ritual-profonda, in italiano fatalista-serena. Ma sarebbe un gioco, appunto, basato sul fatto che dovrei interpretare dall’esterno, ascoltando la cadenza e le parole che uso, il modo in cui rispondo a una domanda. Sarebbe lo strano gioco di interpretare se stessi non sapendo quel che di sé si sa, ma guardandosi da un limitato punto di vista social-interpersonale.
Sarebbe come dire – e viene detto, e dibattuto, da secoli – che si cambia personalità a seconda del vestito che s’indossa, della situazione in cui si è. E’ vero e non è vero. E’ vero, ossia, che siamo abbastanza intelligenti e versatili (e non tutti lo sono, e chi non lo è viene fatto ricadere sotto una qualche sindrome) da declinarci a seconda del contesto, ma anche abbastanza stupidi da dimenticarci che quelle risposte, ormai automatiche, non sono declinazioni di chi siamo, e le crediamo entità a sé stanti.
Mi piace giocare con le potenziali declinazioni. Cercare di realizzare al meglio la calda cortesia con cui unə cliente tedescə si pone in negozio, e divertire gli apprendenti, pure tedeschi, che invece si auspicano che io dia loro un po’ dei modi di fare che compongono lo stereotipo italiano. Di cui anche io godo, quando torno in Italia. È meraviglioso godere di un gioco ricordandosi che è un gioco – una possibilità – e non una natura – un obbligo. Come sono meravigliosi T e G, che nella mia testa di trapiantata in Germania sono due squisiti esempi di Casanova italiano – che porterei in aula a mo’ d’esempio, di declinazione di cui godere, come porterei B da amici italiani per dir loro:
“Ecco, vedete: da quel calderone di usi, costumi, abitudini, prassi e ruoli giocati, può venir fuori anche questa quotidianità – e non è meravigliosa?”.
Vale per le lingue come vale per le classi sociali – soprattutto quando queste cominciano ad assomigliare a ceti.
Lavoro come commessa in un negozio (un po’ snob) di tè e come insegnante di italiano. La proporzione esistente tra i due stipendi è a volte riflesso della proporzione tra i modi in cui vengo vista (o viceversa?) – e quindi trattata. Riesco a godere di questa differenza – quella Me che serve (per quanto in Germania ci sia un rispetto a priori molto più pronunciato che nell’Italia che ho esperito, indipendentemente dal ruolo) e quella Me che sa (e non importa che io non veda una superiorità nel mio insegnare una lingua rispetto a chi l’apprende: balbettare, da adulti, fa sentire spesso un po’ depauperati) – perché posso esperirle entrambe, relativizzare, ma soprattutto perché relativizzo. E proprio perché mi piace immedesimarmi, mi immedesimo in chi invece non solo si trova a occupare un solo ruolo, ma oltretutto percepisce questi ruoli – siano dovuti alla classe sociale, alla lingua, alla provenienza, a whatever – come assoluti, e non relativi. M’immedesimo in chi percepisce il mondo come ingiustizia perché si sente alla base della piramide sociale; e in chi percepisce la propria vita minacciata da chi vorrebbe depredarne il potere. Cerco di capire la rabbia e frustrazione di quel “popolo”, che sta ricominciando a formarsi nella percezione pubblica, che si sente preso in giro e sfruttato da più o meno fantomatici (e assoggettanti come mostri mitologici, romanzati, resi quasi semi-divinità) “potenti”; e il senso di minaccia percepito da chi si sente nell’unica posizione legittima (sia quella d’essere italiano, tedesco, acculturato, whatever) in un mondo in cui sembra (sembra, ribadisco) sempre più facile sconfinare nei “territori” altrui.
Alla fine sembrano un po’ tutti aver ragione – e quindi tutti un po’ torto.
Dopotutto i potenti manipolatori ci sono – così come ci sono le masse incolte e cieche di rabbia. E mi domando se persone come Trump non rappresentino una nuova, modernissima, mescolanza tra le due cose. Uno di quei potentissimi simboli – come Faust e Hitler (e il paragone finisca qui, per favore) – il cui potere è proprio questo: saper far esacerbare gli estremi in noi. Farci diventare – sentendo che non solo è legittimo, ma è anche necessario – più intolleranti nei confronti dell’“inferiorità” altrui, quale essa sia, sia anche un dettaglio che necessita d’essere ingigantito sicché possa soppiantare l’intera persona; più intolleranti dinnanzi agli altrui privilegi, visti come ingiustizie storiche di un processo che si vede come mai mutato o che, peggio, va esacerbandosi.

Ho la fortuna, qui a Berlino, di avere a che fare con persone per cui non è lecito lasciarsi andare a estremi.
L’unico estremo che testimonio è, paradossalmente, quello dei liberali. Dovevo venire in Germania per farmi dire che sono una “figlia dei fiori nazista” (la prima connotazione dovuta al mio essere estremamente liberale e tollerante per quanto riguarda il modo in cui le persone sono; la secondo dovuta al mio essere piuttosto formalista e poco corruttibile per quanto riguarda la coerenza necessaria alla convivenza sociale). Ma d’altro canto dovevo venire in Germania per conoscere persone che diventano inconsapevolmente discriminanti proprio perché vogliono essere così tanto liberali da smettere di concepire libertà che non siano contemplate da quella forma di pensiero liberale che vuole salvaguardare tutti – tranne chi non vuole salvaguardare tutti. Strano paradosso, questo, da spiegare.
Ma, a parte questi estremi paradossali, la mia quotidianità offre un’atmosfera in cui non è lecito attaccare il prossimo sulla base di un pregiudizio. Non so se sia la Germania, Berlino (più probabile), o il fatto che ci attiriamo nostri simili più di quanto pensiamo (ancora più probabile), ma vivere qui mi fa sempre più sentire in un’isola felice – altro paradosso, perché Berlino, con il suo contenere tanti opposti, è una città che offre non pochi estremi. Che convivono, e da tempo, e non riesco ancora bene a capire come.
Il mondo qui, insomma, non mette alla prova la mia tolleranza – dovrei limitarmi a tollerare la varietà umana (ma quella non mi serve tollerarla: perlopiù ne godo), mentre non mi viene chiesto di tollerare chi non tollera la varietà umana. E non è poco, sapete?

E’ strana, Berlino, storicamente così variegata, permissiva, amante del costante divenire e dello sperimentare – e al contempo storicamente così importante, importante volente o nolente, anche a suo discapito, perché da città importante viene investita di enorme potere politico-sociale, sia da chi tutto vuole accogliere che da chi vorrebbe a tutti chiuderla.

Di valli oniriche e veglie.

Ho letto il messaggio accucciata per terra sulla mia borsa, il cellulare in mano nella penombra dello sgabuzzino/bagno del negozio, nel primo minuto dei trenta della mia pausa.

Avevo accumulato buone news nel corso della giornata, grandi e piccole.
Ero stata a un colloquio in una scuola da cui ero uscita più insicura sull’effetto che io avessi fatto su di loro che viceversa – il che è un’ottima nuova, considerando l’esperienza finora maturata con le scuole italiane d’italiano a Berlino. Ottimo l’insieme: la prima impressione, le condizioni, la retribuzione, il fatto che mi inseriscono nella loro lista insegnanti. Incrociamo le dita e speriamo di riuscire a incastrarla bene con i turni in negozio – ed ecco un’altra piacevolezza della giornata: la consapevolezza che in ventiquattro ore il mio contratto part-time come commessa sarebbe diventato automaticamente a tempo indeterminato. Il che non è poco, quando ti servono entrata fisse mensili e al contempo devi trovare compromessi con altri orari. Una strana, confusa, trilingue vita, quella che sto conducendo, in cui lavoro in un negozio dove posso parlare tedesco perché il lavoro come insegnante d’italiano, pagato tre-quattro volte tanto, non aiuta molto con l’idioma locale.
Sto già divagando?
Sto divagando, già.
Torniamo al punto, Kreatur.
Ottima la pausa che è seguita al colloquio, a casa di G, G che è un incontro per cui il mio cuoricino sarà a lungo grato. Mi rincuora il modo in cui sta in piedi, la testa leggermente reclinata, sistemandosi quei capelli che si sta facendo crescere ma che ricaccia sulla nuca.
Sto divagando di nuovo?
Di nuovo al punto, Kreatur.
Al lavoro, in negozio, ho scoperto non solo che non ci sono problemi se voglio prendermi dei giorni di ferie nel periodo X, ma che nel frattempo, nel mio periodo di prova, ne ho accumulati altri, di giorni di ferie, che devo assolutamente usare: ed ecco una settimana a casa a marzo. Schifo non fa, no? Da festeggiare con uno dei due infusi che mi porto a casa oggi: il chai al pepe rosa o l’infuso di spezie? Da decidersi eventualmente, a casa, con VB.
Poi è arrivata la pausa – un’ora, ufficialmente, ma oggi c’è poco tempo e ne faccio con piacere mezza, e recupererò l’altra poi – e come ogni volta sono andata nello sgabuzzino/bagno del negozio, mi sono chinata per controllare l’ora e connettermi a internet e ho visto il messaggio di Mater. Non ho neanche dovuto leggerlo tutto: mi è bastato sbirciarne la fine. Mi è bastata, forse, la sola parola “Diana”. Il resto è stata una conferma.

Ho ringraziato il miracolo degli automatismi, trenta secondi dopo, salutando con un Bis gleich! i colleghi, diretta dall’orientale da cui mi procaccio tanti pranzi e cene. E’ comodo ordinare sempre la stessa cosa. E’ comodo avere trenta minuti di pausa, avere bisogno di mangiare e fumare: il tempo si scandisce quasi da solo.
Ho ordinato i noodles vegetariani, ho pagato, mi sono diretta a uno dei divanetti del Mall. Avevo già gli occhi lucidi e arrossati, ma è quel poco appena impercettibile che non solo è perdonato dal mondo circostante, ma anche da te stessa. Non conta come superamento di un limite. E’ un accenno, quasi dovuto, un contentino, una scusa per non potersi dire che non ci si è dedicati del tempo – per non potersi dire, insomma, che ci si è lasciati andare senza resistenze alla grande tentazione della psicopatica che non si fa turbare dai sentimenti.
Mentre mangiavo, rallentata dal magone (questo, automatico come un singhiozzo: capita, ma te lo lasci alle spalle, di sottofondo, trattandolo come si trattano tutti i sintomi che non si possono controllare), una parte di me – che di opporre resistenze proprio non ne aveva voglia – ha pensato che era una gran rottura di coglioni. Non il fatto in sé, ovviamente, ma quello che mi sarebbe toccato fare: lutto. E lutto significa tante cose: affrontare i propri sentimenti, scovarli se necessario, scoprire a che cosa siano interlacciati, che cosa tiri che cosa, che cosa cada con che cosa, accettare per l’ennesima volta che c’è un tempo per soffrire e basta, senza strategia, come si accetta un singhiozzo – non tutti, ma almeno il primo sì.
Fare lutto – come qualsiasi pratica che riguardi il vivere i propri sentimenti senza poter scartare a priori quelli negativi – richiede un sacco di energie. E non lo dico perché sono una creatura coscientemente fortemente attratta dalla psicopatia come soluzione a molti mali quotidiani: richiede un sacco di energie a chiunque, in bene o in male, che si costruisca una vita sulla celebrazione dei sentimenti, o che li si viva assieme a tutto il resto. Si può evitare di affrontarli e rielaborarli, certo, ma non penso di essere ancora al 100% pronta a una vita fatta di tic e attacchi d’ansia e paranoie e dioseesistesachecosa. Elaboriamoli, questi sentimenti. Inneggiamo alla vita nel suo insieme, morte compresa.
Dopo tre ore di mal di testa al lavoro, sola in negozio, il peggio – o almeno la prima fase del peggio – era passato. Il ritorno a casa, il farsi raccontare nel dettaglio non che cosa, ma come sia successo. Le solite domande che non riesco né forse mai riuscirò a evitare. Era sola quando è successo? Ha sofferto? Non che Diana se ne faccia granché, ora – ovunque sia, e qualsiasi cosa sia, e se sia, ora, qualsiasi risposta a quelle domande appartiene al passato – eppure, ciò nonostante, non riesco a scartarle dalla mia lista di priorità. Come era successo con Micio, uno sputo di tempo fa (settimane? Mesi? Il mio rapporto con il tempo è sempre più problematico). E per quanto tale argomento – le domande metafisiche attorno alla morte di una creatura – sembrino essere proprio il fulcro dell’argomento, in realtà, in qualche modo, sto divagando di nuovo.
Ritorniamo al punto.
Addormentarsi è stato incredibilmente semplice. Qualche coccola con VB (non troppe o crolla tutto, ovviamente – “non preoccupatevi quando una persona rinuncia del tutto alla sensibilità, ma quando sa dosarla con lucidità”, mi verrebbe da dire) e poi leggere fino al crollo.
Il risveglio è stato più duro: ho immaginato il risveglio nell’altra casa, quella in Italia, e la presenza dell’assenza di Diana. E di Micio. Perché, signore e signori, per quanto mi riguarda siamo a due: due vuoti che devo ancora incontrare e che aspettano il mio ritorno. (Ricordate la buona nuova menzionata all’inizio, quella per cui posso prendermi i giorni di vacanze che mi servono per fare una capatina in Italia? Ecco.) Sarà straziante, in parte. (Una parte probabilmente piccola, nell’economia generale, abbondantemente controbilanciata dall’entusiasmo e dal sentirsi le benvenute in un luogo che si conosce e ci conosce – ma non importa quanto grande o piccola sia: importa che ci sia e sia lì ad aspettarti, fatale come un dettaglio che non riesci a ignorare.) Ma non vogliamo i tic e le paranoie, giusto? Il mondo è pieno di gente con la maturità emotiva di una barbie e con l’autocontrollo di una trottola impazzita. Ce lo perdoneremmo? No. Ma soprattutto: riusciremmo a convivervi? Ecco appunto.
Ma, tornando per l’ennesima volta al filo del discorso, neanche al risveglio c’è stato il tempo di. Il tempo doveva essere dedicato ad altro. Alzarsi, pulirsi, vestirsi, mangiare, uscire, lavoro. Ultima lezione di un corso di italiano. Poi al ristorante con due apprendenti a cui mi sono incredibilmente affezionata. Chiacchierare in tedesco e italiano e intanto qualche coccola alla loro cagna, da poco adottata da un canile ungherese. Una piccola miracolata, la creatura. Cauta e facile all’entusiasmo come molti cani provenienti da canili. L’ho guardata – come ogni volta – nella sua presente ritrosia e ho immaginato la sua futura maggior pace interiore, e ho sorriso: certe cose fomentano la speranza e la gratitudine, o, meglio ancora, una mescolanza delle due cose.
Dopo il meraviglioso pranzo, è venuto il momento forse più assurdo di questi due giorni: quello in cui sono tornata alla scuola per contrattare sul mio (ridicolo) onorario. Il fatto che fosse ridicolo era, da un certo punto di vista, un vantaggio: è molto più facile contrattare quando hai poco da perdere. Ma, per quanto facile fosse, ho dovuto dosare le energie, considerando quelle dedicate al mantenimento della Me Stessa quotidiana. Quella cosa, insomma, per cui non entri in un ufficio a contrattare con gli occhi rossi e lucidi. Ma neanche lontanamente. In Germania, poi, soprattutto in una certa Germania di vecchio stampo, dove neanche ai funerali è lecito piangere (essendo il funerale un momento pubblico-sociale, e non privato-personale, prima che berciate sull’insensibilità dei tedeschi, bitte).
Insomma, sono entrata in ufficio a contrattare e mi sono trovata davanti a una persona con gli occhi gonfi, lucidi, rossi. E no, da qui non si dipanerà un racconto di come io abbia scoperto che a lei in realtà era successo che e bla bla bla e questo spiega perché sia una persona descrivibile con epiteti e bla bla bla per cui alla fine mai penseresti di poterla non dico com-prendere, ma addirittura com-patire, ma poi un giorno la trovi in ufficio praticamente in lacrime e tutta la sua vera storia e bla bla bla. Niente di tutto questo. Non so che cosa le sia successo, e probabilmente non lo saprò mai. Avrei potuto – mi sono detta – approfittare della situazione e tirare uno schiaffo alla sua professionalità (che già, nel mio cuoricino, ho messo in dubbio in passato – più lecitamente, ossia per motivi ben più leciti, di due occhi rossi, che probabilmente non sono neanche un sufficiente motivo in sé) dicendole che forse sarebbe stato meglio se fossi passata un altro giorno, ma non l’ho fatto. Né ho – come pure mi sono detta – tentato di offrirle l’equivalente di una pacca sulla spalla (ci sono tanti modi, qui, di farlo senza scendere nel lacrimevole-pietoso, ma sono sottili sfumature che ancora uso con cautela), perché davanti a tanta caparbietà – la sua nel portare avanti la maschera quotidiana nonostante il trucco palesemente sbavato – sarebbe stato forse peggio. Tanta caparbietà meritava un po’ di rispetto. Tanto più che, persino in quelle condizioni, ha cercato di raggirarmi giocando con i numeri.
Ma comunque.
Sono uscita da quell’ufficio con lo stomaco ancora pieno di buon cibo italiano e con un peso in meno sullo stomaco, consapevole che il tempo di posporre era finito: tornata a casa, qui, avrei avuto quel che rimaneva del pomeriggio per rimasticare i sentimenti.

Diana è morta ieri, Micio prima di lei, e i sogni hanno tanto da dirmi.
Sabato notte – quando Diana era ancora in vita – ho sognato di vivere in una Norvegia molto fantasiosa, fatta di aspre montagne ma dolci valli, in cui conducevo una vita stranamente serena e soddisfacente per essere tanto ripetitiva. Ogni giorno lo stesso percorso sulle stesse stradine, avanti e indietro, finché – nel sogno – non ho visto, in un giardino recintato, Diana. Sapevo che non viveva più con Mater (o con mia nonna, che in alcuni dei miei sogni è ancora viva – ma questa è un’altra storia), per un motivo che oserei definire “neutrale” (non sapevo, ossia, quale motivo fosse, ma quale esso fosse, non mi causava sentimenti né negativi né positivi), ma non sapevo dove fosse. L’ho riconosciuta dalla pancia prominente e glabra, dai peli ingrigiti sui fianchi. E ho scoperto che viveva con una vecchia signora, anch’essa “neutrale”. E le due – Diana e la vecchia signora – diventavano l’ennesimo tassello di questa romanzata vita norvegese di giornate candidamente tutte simili: ogni giorno, andando al lavoro, passavo a trovarle, e le sapevo stare bene entrambe, e ciò mi faceva stare bene.
Al risveglio, ovviamente, tanto bene non mi sono sentita. Per quanto nel sogno il fatto che Diana non vivesse più a casa con Mater fosse un fatto scatenato da cause “neutrali”, nella raziocinante veglia la faccenda è apparsa meno tranquillizzante. Avrei voluto parlarne con Mater – per scaramanzia? – ma ho posposto. (Oh, quanto si pospone.) Ho posposto anche – ed ecco che arriva la stilettata d’ironia crudele – perché mi sono detta che tanto a breve sarei tornata in Italia e mi sarei abbracciata Diana e Moka – quella palla di pelo nero e lucido che si fa chiamare “gatto” – nel modo in cui quei due stavano culo-a-culo nel sogno. Li avrei sentiti su di me come loro si sentivano e facevano sentire l’uno dall’altro nel sogno. Quella mancanza che nel sogno era rappresentata dal trasferimento di Diana sarebbe stata riempita da un semplice gesto, il semplice tocco, quell’insieme di calore, respiro e presenza che dà il senso della presenza di una creatura di fianco a noi. Non sono feticista – sono iconoclasta, come sono stata definita da una persona che mi ha fatto indagare fin troppo bene il significato di “presenza dell’assenza” – ma non tutto può essere saturato da immagini e parole. A volte serve una semplice vicinanza di respiri e calori.

Il respiro riguarda un sogno più vecchio, posteriore alla morte di Micio. In un altro bucolico scenario – una mescolanza di mare e montagna, casa e vacanza – ho sognato lui e la mia defunta nonna. Lui si faceva riconoscere per quelle faticose ma rumorosissime fusa che riuscivano a spezzare non solo il silenzio, ma anche altri brusii di sottofondo. E diventavano, esse stesse, un sottofondo, diventavano scontate, e chissà quanti altri miei sogni hanno cadenzato prima che io realizzassi che cosa erano esattamente, prima che io le riconoscessi come un ricordo di una creatura morta, come qualcosa che ormai poteva esistere solo nella mia testa.
E’ servita la presenza di Micio, in quel sogno, per farmi dire alla mia onirica nonna per la prima volta nella mia vita (che io ricordi):
“Nonna, ma tu sei morta.”
Non che nei sogni precedenti non lo sapessi. Ma, per una contorta forma di cortesia, non lo dicevo. Contorta ma essenziale, questa cortesia, perché la nonna onirica ha reagito come reagirebbe una qualsiasi persona a cui dici che non ha il diritto di esistere e quindi per favore che esca dalla stanza: si è offesa, nel profondo, ferita. Non che io volessi dirle che non esiste come presenza onirica e/o che non la volevo là: volevo solo dire quello che ho detto. Per farlo sapere a lei, ossia a me, forse. E forse sono io, allora, quella che sente una parte di sé minacciata dalla non-esistenza? Cosa devo lasciare uscire dalla stanza?

Non so se adesso, nei miei sogni, si aggiungerà anche una Diana onirica. La nonna onirica (che sembra sempre più, chiamata così, una specie di eroina metafisica) e Micio onirico sono e non sono esattamente le stesse creature che erano da vive: sono morte e, da tali, non possono più morire. Non è proprio una differenza impalpabile, se ci pensate: non devo più preoccuparmi per la loro integrità, fisica o mentale che sia. Da non-vive, non sono più soggette a quell’eterno cambiamento che ci benedice e maledice tutti: sono idoli, purtroppo per loro (o, meglio, per la Me Iconoclasta), statici, o perlomeno dinamici quanto può esserlo un simbolo, che più che roteare su se stesso e così mostrare tutte le proprie sfaccettature non può fare. Stanno meglio di me e tutti voi per il semplice fatto che non stanno.
E capisco un po’ di più i catari, quando sento la dolce tentazione di serbare questi simboli umani e bestiali nella mia testa e indulgervi coscientemente: è la tentazione di diventare subito vecchi (dentro). Di smettere di accumulare e costruire e rischiare, e cominciare invece a godere di quello di cui si è già goduto, ma in forma ridotta (come un brodo ridotto, per intenderci, così tanto da non essere più neanche brodo, se non concettualmente: non lo puoi più mangiare, ma la sua riduzione non ha dato vita a un nuovo concetto differente da quello di “brodo”). Ma non voglio neanche cestinarli ciecamente, capite? Mi tengono compagnia, nella loro imperturbabilità, e capisco i culti dei morti e le loro evoluzioni in formato più o meno istituzionalizzato: tra tanto multiforme caos quotidiano, ogni tanto, c’è il conforto di rileggere sempre lo stesso libro, guardare sempre lo stesso film, fare sempre lo stesso punto a maglia – interagire con lo stesso simbolo, che anziché venire da fuori viene da dentro. E’ un contorto – forse perciò umanissimo – guardarsi allo specchio sapendo che ogni specchio deforma.

Non ho mai capito se sono brava a fare lutto o meno.
A volte, pensate, (come ora, tipo), dedico apposta dei momenti al pianto. Perché si deve soffrire (non nella vita e per principio e diamoci tutti ai patimenti, ma come diretta conseguenza di un evento che ci ferisce), e se piango so che lo sto facendo. E so che sto soffrendo, anche se non lo sento, lo so perché lo deduco, ma solo piangendo posso sentire che sto soffrendo, capite? So che è un ragionamento, più che contorto, che sfiora l’auto-presaperilculo (o forse l’auto-manipolazione), ma questo ho a disposizione. E’ come se mi pompassi il cuore a mille per poterlo sentire ed essere così sicura che batte ancora. Un po’ contorto, anti-economico, ma questo ho a disposizione.

Non ho belle parole per Diana come non ne avevo per Micio come non ne avevo per mia nonna. Sono morti, e non possono sentire (per quanto ne so potrebbero non essere neanche più abbastanza qualcosa per fungere da soggetti in una frase). Non ho in diretta conseguenza neanche belle parole che fingo di rivolgere a loro ma in realtà rivolgo ai vivi che leggono, ai coevi che immagino, ai posteri che verranno – il che mi spiace, perché amo scrivere cose tristi quanto amo scrivere forzati happy endings. Mi spiace, perché adesso ci sono persone vive che soffrono e vorrei soffrissero meno, ma io sono brava a consolare quanto lo sono a scrivere fiabe morali sulla morte.
Per questo su Micio ho taciuto, quando è morto. Qualcuno la chiamerebbe “decenza”, ma di questo qualcuno potrei pensare “moralista”; qualcuno “dignità”, e penserei probabilmente “invasati”. Quale sia il motivo profondo del mio precedente silenzio, fa rima con “onestà”, ma in un senso tutto particolare: quello dell’impossibilità di scrivere di quella morte onestamente offrendo al contempo un pensiero non dico edificante, ma almeno non il contrario. Vorrei che il motivo di quel mio silenzio – e di altri simili – facesse rima anche con “umiltà”, ma – per esperienza – più mi sento umile, più risulto arrogante.
Insomma, ho taciuto, questo so. E una enorme parte di me avrebbe taciuto anche nel caso di Diana – un’enorme parte di me che ha blaterato per circa dieci minuti, ieri sera, per poi venire zittita da un ancor più enorme stimolo, e dico “stimolo” perché oggi – mentre tornavo a casa, consapevole di essere diretta a questa scrivania, a questo scrivere e ogni tanto piangere – mi sentivo come se dovessi defecare. Defecare, proprio, non pisciare. Un accumulo che ci sta dentro, e sentiamo, e sappiamo essere parte di noi, e possiamo quindi tenere lì ancora per un po’, ma non per sempre, perché non è così che funziona il nostro corpo, né la vita, né la vita quando sfiora la morte. Pazientiamo, sapendo che il momento sta per arrivare. Certo, nel caso di questa metafora il momento dell’espletamento corrisponderebbe al defecare in pubblico (sto defecando su un blog), ma, oltre ad aver simpatizzato con i catari, abbiamo simpatizzato con i pietisti, e poi con i cinici (quelli originali), quindi non stupiamoci di tanta urgenza di defecare in pubblico. (Prima che condiate il vostro prossimo aperitivo narrando di come i pietisti e i catari defecassero in pubblico: no, non lo facevano. Ma avevano pratiche di confessione collettiva. Fine della parentesi.)
Scrivere qui è l’ennesimo modo di vivermi nel mondo. Sono purtroppo refrattaria all’essere consolata (mano sulla spalla, parole dolci, contrita pazienza e com-patimento – una serie di cose che mi fanno stringere lo stomaco più dalla rabbia che dalla sofferenza, e non fate a casa quello che leggete qui), e a quanto pare o esprimo sofferenza o parlo. Se esprimo sofferenza, non riesco a parlare. Se parlo, non riesco a esprimere sofferenza. (E’ il motivo per cui, fun fact, alcune persone parlano con estremo distacco di avvenimenti atroci a loro appena accaduti: non è psicopatia – o, almeno, non per tutti.) Se scrivo, invece, riesco a esprimere sofferenza – e viceversa. E va espressa, questa sofferenza. Non vogliamo i tic e le paranoie, giusto? E non vogliamo neanche, un oggi o un domani, essere davanti a una Nonna, a un Micio, o a una Diana, a qualsiasi creatura mi ancorerà a questa terra, e non essere in grado di dar loro tutto quello che vorrei – che vorrò, spero – loro dare, perché troppo contriti in sé, troppo costipati.

(Un ringraziamento sensato forse riesco a farlo: a tutte quelle creature che, ancora vive, sanno offrire tanto quanto i “miei” morti hanno offerto a me nel corso della loro vita grazie al semplice fatto di essere vivi e di essere esattamente quello che erano. E non lo offrono perché così un giorno qualcuno le ricorderà. I ricordi non esistono. Gli specchi, però, sì, e nel loro essere deformanti sono essenziali. Esemplari, a volte. Sapeste quanto ho imparato da Micio e Diana.)

Del nero e di altre vanità

Tanto tempo fa, nel paese delle cose che chiamano reali, qualcuno mi disse che, quando si dipinge, non bisogna mai usare il nero. Mai.
Avrebbe potuto essere stato un docente al liceo artistico che frequentavo, conosciuto più per fama che nei fatti. Nei fatti è stato supplente per un paio di lezioni, sufficienti a rendere chiari i motivi della sua fama. Dato che la vita non è coerente, io, ovviamente, non ricordo il nome di tale famosa persona. Lo chiameremo “Costui”, giusto per ricordare il sacro potere degli esorcismi.
Costui era ammirato e riverito dai suoi studenti in quel modo che, se non lo esprime chiaramente, comunque sottintende una certa soggezione. Quella del “severo ma giusto”, per intenderci, con la postilla che ciò che faceva chinare il capo dei suoi seguaci non era la severità, ma quella certa cripticità che tanto eccita chi s’accosta all’arte per darsi un’aura di superiorità. Arroganza, la chiamano alcuni. Dipende sempre dai punti di vista.
La verità era che – come nella maggior parte dei casi – la colpa non era del tutto sua. Certo, Costui sapeva incarnare perfettamente l’Autorità da Contrastare, e certe figure nella vita servono, soprattutto se stai studiando in un liceo artistico. A che servi, come artista (qualsiasi cosa significhi), se non sai contrastare? E non solo i colori su una tavola senza usare il nero.
La Regola Assoluta sul Nero fu la seconda cosa da lui detta che io ricordi. Anzi, la terza. La prima era una domanda:
Che cosa significa arte?
Dinnanzi al silenzio più o meno ignorante o pavido o umile o menefreghista che ne seguì, disse la seconda. Che non ricordo nel dettaglio, ammetto. So che suonava esattamente come un:
Siete tutti delle capre.
E so che in quel momento io mi alzai e uscii, simbolicamente (ma anche per rabbia, siamo sinceri), dalla classe. Dovevo dire la mia. Se non sull’arte, sulla sua performance. E, vedendo la sua uscita come una performance atta a elicitare in noi quel che c’era da elicitare (se c’era), oggi, a posteriori, dovrei ringraziarlo.

Non confondete questo mio discorso con quelli, da vecchi (che pure sono – come già lo ero quel giorno), che a posteriori riconoscono e appoggiano un’autorità che da giovani contrastavano ciecamente. Insomma, non confondete il mio discorso con quello dei conservatori opportunisti (ne esistono di non opportunisti?), che pur di salvaguardare la propria attuale posizione benedicono un vecchio male conosciuto e allora ferventemente odiato perché tanto ormai quel male tocca alle successive generazioni. (Frase assurdamente lunga che potevo riassumere con la splendida espressione, per quanto di un sessismo orribile, “Fare il frocio con il culo altrui”.)
Non sto dicendo che Costui abbia coscientemente fatto qualcosa di utile per me e che la sgradevolezza dell’esperienza fosse necessaria perché – e qui parte l’odiata retorica – certi mali sono necessari (a cosa? O, meglio: a chi?). Forse era veramente un Maestro nell’anima, capace di far sbocciare caratteri a colpi di provocazioni. Forse era solo uno stronzo che si sentiva misero e fallito nel vasto mondo ma sapeva di poter essere grande nel piccolo di una classe. Forse non era nessuna di queste cose, ma semplicemente una persona che per noia procedeva a scossoni. Chi lo sa. Non importa. A me è stato utile, e non solo per avermi permesso di prendere una posizione (e quindi chiarirmela) e per la dritta sull’uso del nero. Più per quel che sta in mezzo alle due cose e le lega, direi.

Se qualcuno vi dice che, quando si dipinge, non bisogna mai usare il nero, ricordatevi che il mondo se ne fa ben poco di artisti (qualsiasi cosa siano) pronti a chinare il capo davanti al primo dogma che non comprendono. Che non sanno, né possono, comprendere, fino a che non si sporcano le mani (di colori). E sporcatevi le mani.

Nella vita quotidiana il nero è più un’astrazione che un fatto. Esiste più o meno quanto esiste la femminilità (il gender, non vagina e ovaie) – esiste, ossia, nella misura in cui è il risultato di un tentativo di dedurre leggi generali basandosi sui propri sensi, e – soprattutto – per la maggior parte del tempo esiste soltanto se ci credi.
Se credi nel nero, il nero è ovunque. Nere sono tutte le cose che compri perché sotto “colore” c’è scritto “nero”, ad esempio, o che hai preso dal reparto dei vestiti neri – di solito tutti messi assieme. Poi ci sono le cose per definizione nere, così tanto nere da essere sinonimi del colore. Nero come la pece, il piombo, un corvo. E il fatto che esistano tanti tipi di nero (come l’ebano, la notte, un pozzo senza fondo) dovrebbe cominciare a farvi dubitare del fatto che IL nero esista. Il nero assoluto, intendo. Quello che nelle tavolozze dei programmi di grafica starebbe all’estremità – il colore più scuro, e quello più insaturo. Ma su quale schermo? E in quali condizioni di luce? Il fatto che il vostro computer vi dica che #000000 è nero che più nero non si può fa sì che nella realtà pre-esistente ai computer nasca un nero senza prefissi né suffissi? Se vi dico “democrazia”, questa comincia esistere? E “giustizia”? E “Dio”?
A questo punto dovrei dire:
Ma ci stiamo perdendo…
Ma non ci stiamo perdendo più di quanto sia necessario farlo.

Mister Costui aveva portato il Veto sul Nero, probabilmente, perché si stava parlando di acquerelli, e gli acquerelli sono per definizione la tecnica dei colori brillanti, e se aggiungete del nero a un qualsiasi colore brillante per scurirlo il colore smetterà di essere brillante.
Volete fare una bella e lunga ombra sulla spiaggia al tramonto?
Usate il blu o il viola.
E un chiaroscuro netto e forte su una bella scena serale in un bar con luci al neon blu?
Osate con l’arancione scuro, scurissimo, ossia mescolando tutti i colori primari ma privilegiando rosso e giallo. Che creano l’arancione, che è il complementare del blu. E – puf! – mistero risolto.
Padroneggiate un po’ le basi della teoria dei colori e potrete dipingere qualsiasi (e lo ribadirò con l’enfasi di Costui: qualsiasi) cosa vogliate, Gioconda inclusa, senza usare una punta di nero. Anzi, se diventerete ancora più bravi un giorno, forse, riuscirete – mescolando i soli colori primari – a creare un nero che sia visto come tale e in assoluto da chiunque lo guardi. Ma ribadisco forse, e uso questa parola solo perché è sacra.

E’ con la parola “forse” che mi sono difesa da Costui. Ho preso il suo dogma sul Nero e l’ho fatto diventare una curiosità. E non me lo sentirete ripetere, mai, a meno che io non voglia essere provocatrice. Perché non è vero che quando si dipinge, anche con gli acquerelli, non si deve mai usare il nero. O che non bisogna mai usarlo. Vero è che non è per nulla necessario farlo, e questa è una buona nuova: potete creare incredibili tridimensionalità senza smorzare i colori.

Uso il nero, e spesso. Faccio un sacco di cose che non andrebbero fatte. Uso il nero per creare contorni netti e voragini scure, così come uso gli acquerelli in un modo che farebbe venire la pelle d’oca ai puristi della tecnica. (E non dirò che lo faccio perché tanto ormai la tecnica l’ho appresa e quindi posso giocarci: non sono mai diventata un genio in materia, avendo virato in direzione di un uso alternativo ben prima di poter far sfigurare gli imbratta-fogli che vendono vedute di Piazza San Marco a 50 euro il pezzo. Che sembrano pochi, trattandosi di acquerelli – ehy, fatti a mano individualmente! Ma che sono uno sproposito, quando sono fatti in serie à la Ford. Sempre a mano, chiaro. Come i palloni a mano cuciti.)
Uso il nero sapendo che è una scorciatoia e, ben peggio, una semplificazione. Il mondo, letteralmente, non è in bianco e nero: è sempre una mescolanza di tutti gli altri colori. Coprire metà volto in ombra di china nera significa ridurlo. Significa impressionismo istituzionalizzato, e va bene così, perché può significare anche un espressionismo coscientemente accolto: ci sono volti così scuri, nelle ombre che creano, che, per quanto l’occhio possa vederne i dettagli, la mente li percepisce come voragini. E passo e ripasso e calco e scolpisco con la penna nera i contorni delle sagome che disegno perché le voglio distinte, separate, concettuali. E incido perché, come ho scoperto grazie al Mittner (R.i.P.), da qualche decennio (quindi da sempre, rispetto all’arco della mia vita) a questa parte l’arte è (o meglio: può essere) sempre anche un po’ performance: il progetto viene costruito mentre lo si realizza. E così, per dire che quell’angolo è dolorosamente acuto, vi passo sopra la punta della penna tre, quattro, venti volte, anche se dopo la quinta la differenza sarà probabilmente percepibile solo da me e dagli strumenti di un laboratorio. E lo faccio in nero anche se non mi servirebbe per rappresentare la realtà, qualsiasi cosa sia, per il semplice fatto che non è mia intenzione rappresentarla fedelmente (cosa impossibile, date certe premesse, ma non perdiamoci ulteriormente).

Eppure, ovviamente, a volte sento la voglia di spiegare a qualcuno come il nero sia da usarsi con parsimonia – concettualmente, non nei fatti. Non per la brillantezza dei colori (e se li volessi pastellati e/o sporchi?), ma per il timore che qualcuno creda veramente che il nero non solo esiste, ma è ovunque e quindi essenziale. Che sia un fatto, non una rappresentazione. E qui potrei dirvi: “Perché c’è gente che ci crede veramente”, instaurando tra me e voi quella complicità da persone che stanno dalla stessa parte della barricata, tendenzialmente quella della ragione. Ma che ne sa la maggior parte di voi di che succede al rosso quando vi si aggiunge del nero, e quando del blu e del giallo? E perché mai sareste tenuti a saperlo? E che ne so io di diversi ma paralleli percorsi, lunghi anni e larghi epoche, che indagano ciò che io credo esistere e che invece è frutto della mia limitata percezione, della mia limitata esperienza?

Se pregassi, ora mi rivolgerei a chi di dovere perché mi spedisca sempre più illuminazioni. Non quelle fatte di luce bianca, ma di mille colori. Pregherei perché mi permetta di vivere il più grande contrasto nell’assenza di bianco e nero, e me lo faccia vivere anche e soprattutto in quelle regioni a me remote perché non ancora esperite. In bene e in male. Nel bianco e nel nero, come lesivi modi di dire si ostinano a dire. Nell’arcobaleno, preferisco – perché che facile e piatto e noioso mondo sarebbe, questo, se il male fosse semplicemente una mancanza di bene, e il nero (o il bianco) di colori?

Funziona, no?

Il Lapsang Souchong è la versione rude dei tè. Affumicato, lo chiamano, come è. Potrebbe sostituire così come accompagnare del buon tabacco da pipa, un buon sigaro, un buon whisky. Se dovessero farne una pubblicità, ne verrebbe fuori una cosa veramente troppo simile ai vecchi spot della Montenegro per essere tollerabile. Lo slogan conterrebbe la parola “vero”. Ci sarebbero mani sporche di quel lavoro che crea rispettabilità passando per la pesantezza. Ci sarebbero aliti che si mescolano, tutti affumicati, grevi e pieni come una confidenza che non si formalizza, anzi, che si nutre di ciò che la rispettabilità borghese rifugge. Insomma, sarebbe una pubblicità veramente insopportabile.
Avevo smesso di bere Lapsang Souchong quando, arrivata a Berlino, mi sono nutrita a salsicce fino a esserne nauseata. L’odore – sarà stata la nausea a farmelo pensare – era veramente simile. L’odore è la prima barriera – o il primo invito – nel caso del Lapsang Souchong. Ho visto volti raccapricciarsi a una sola sniffata, così come ne ho visti di innamorati. Questo tè ti dà un gusto alternativo senza ricorrere agli ingredienti che vanno di moda nella stagione corrente (li conoscete tutti: c’è stata la moda del ginseng, quella dell’aloe vera, e – qui in Germania da un bel po’ di tempo – quella dell’olivello spinoso). Il suo essere “storico” funge da garanzia: non passerà, vano, come un passeggero trend. Non so bene a che cosa serva tale garanzia, quando quel che dovrebbe contare è se la bevanda ti piace o meno, ma ha indubbiamente una sua attrattiva. Quella di un senso scorto tra tante caducità, suppongo.

Bucare fogli A4 e pinzarli assieme fa parte dei miei rituali quotidiani. Segna la fine dei compiti per il corso di tedesco, che vengono inseriti in una cartelletta di plastica che non so neanche come si chiami. In Italia le vendono anche ai profani, ormai – quelle cartellette colorate in cui infili fogli – ma non so veramente come si chiamino. Non ho mai avuto bisogno di saperlo, d’altro canto; d’altro canto in Italia non le ho mai usate – se non per un breve periodo dopo il mio ritorno dalla Germania, ovviamente.
Il bello di queste pratiche – bucare fogli A4, pinzarli assieme e infilarli nell’apposita cartelletta – è che, quando sei in Germania e cominci a usarle per organizzare i tuoi appunti, non riesci più a ricordarti come potessi vivere senza di esse. Poi torni in Italia e, dopo un po’, non riesci più a ricordarti perché ti servissero tanto in Germania. Non sono entrambi Paesi dotati di fotocopie e fogli A4 su cui prendere appunti? E allora perché tanta differenza? Perché qui sembra essere impossibile studiare senza queste strategie organizzative, che – in forma di vari aggeggi dai nomi più o meno sconosciuti – si trovano in ogni angolo in ogni cartolibreria, mentre in Italia devi darti all’archeologia per poter comprare uno degli Innominabili (che ti costeranno un patrimonio, tra l’altro)?
Ovviamente una risposta non c’è. Le prassi culturali – inclusi anche e soprattutto i metodi di organizzare il materiale di studio – sono arbitrarie e tautologiche, e da tali si innestano nelle abitudini quotidiane, di certo non più ragionate né più sensate.
Aiuta di certo il fatto che in diversi corsi di tedesco – dove, ossia, si trovano persone non ancora socializzate al modello – gli insegnanti suggeriscano, e giungano anche al punto di imporre, l’uso delle suddette cartellette. Hanno torto? Certo che no, il metodo funziona. Fa però strano, immagino, avere 40 anni e sentirsi dire come costruirsi una strategia atta a organizzare i materiali per il proprio processo d’apprendimento. Lo scarto tra la materialità delle cose e i modelli che vanno a crearsi nella mente è a volte sottile come una foglia secca, e altrettanto precario. Siamo anche il modo in cui ci organizziamo. E avrebbe fatto strano anche a me, se già non avessi fatto mio questo metodo copiandolo quando studiavo all’università in Germania. Mi avrebbe messa all’erta.
Come osi, oh tu, dirmi come organizzare la mia mente?
Ma il bello e il brutto della faccenda sta proprio nella domanda:
Funziona, no?
Credo che una certa pedanteria tedesca – quella che fa sì che spesso i tedeschi vengano tacciati di essere un po’ troppo organizzati (nel senso che tendono a organizzare anche le prassi altrui) – sia figlia proprio di questa domanda trabocchetto.
Funziona, no?
Certo che funziona. Forse e semmai è la domanda a essere sbagliata.

Qui in Germania amo contemplare i miei studenti mentre svolgono un’attività di gruppo nello stesso modo in cui amo contemplare dei poliziotti in azione: contemplo la sincronia, la delicatezza, quasi, con cui le mosse e i movimenti di una persona sospingono o accolgono quelli di un’altra. Tutto avviene tacitamente, implicitamente, inclusa la distribuzione dei ruoli – che siano più o meno fissi. Sembra una danza. E, mentre la contemplo, mi domando quanta della cultura tedesca sia figlia di ciò: della contemplazione di tale capacità, delicata e rigorosa a un tempo, fluida e inesorabile.
Mi ci diverto, in negozio, quando una collega apre per me il cestino dopo aver visto che reggo tra le mani un bicchierino da buttare, quando preparo un sacchetto per un collega che sta scansionando gli articoli scelti dalla cliente, quando una mano si poggia delicata su una spalla o su un fianco e questi – senza scarto, senza timore, senza sorpresa – si scostano quanto basta per farti passare. Mi ricordano – alla lontana ma tantissimo – quel che chiunque di voi può esperire da turista in una città tedesca: il come la persona davanti a voi si attarderà un secondo per tenervi la porta aperta più a lungo, di modo che non dobbiate riaprirla per passare; o il come la persona per cui avete tenuto aperta la porta vi ringrazierà con un più o meno impercettibile sorriso, o semplicemente con nulla, perché semplicemente avete fatto quel che chiunque dovrebbe fare, perché è buono e giusto fare così, e non lo si fa per essere ringraziati (ma conosco e apprezzo il cogliere l’occasione per farlo, quasi fosse un piccolo rituale – l’ennesimo – utile a consolidare ulteriormente il senso di comunità).
Mi consola, tale balletto civico. E proprio perché mi consola – come mi consola una certa accorta pedanteria – sto un po’ all’erta, come si starebbe davanti a una grande tentazione, a due passi dal peccato.
Ci sono pro e contro a qualsiasi cosa, o meglio: qualsiasi cosa, se portata alle estreme conseguenze, realizza un incubo. I sentieri più pericolosi sono quelli cosparsi di rassicurazioni e del lieto sentimento di stare facendo la cosa giusta. E non è che, nel singolo gesto, non la si stia facendo. Amo le cartellette che tutto organizzano e sapere di poter contare sul gruppo con cui sto (col)lavorando. Lo amo pacatamente, con un sentimento ben diverso da chi nei tedeschi vede – sbavando – una caricatura del padre punitore freudiano, severo ma giusto.
Interessante, tra l’altro, che la percezione della Germania che spesso più ha successo sia rimasta ancora quella del periodo prussiano-bismarckiano-nazista – ignorando tutte le fasi storiche (e le sfaccettature interne alle fasi storiche appena citate) in cui invece queste terre hanno partorito umanesimi delicatissimi e sensibilissimi – ignorando, insomma, forse proprio quello che ha portato una cultura a iper-armarsi per difendere una interiorità che sa rivelarsi morbida come il burro.

Di radical chic, torri d’avorio, Trump, vertiginosi polarismi e tutti contro gli -ismi.

Leggendo il Mittner (lʼautore di quellʼinfinita e appassionante storia della letteratura tedesca che tanto ho menzionato e probabilmente tanto ancora menzionerò) sono incappata in quella svolta del Novecento durante la quale, tra Germania e Austria (e non solo lì, ovviamente) andavano contrapponendosi sempre più due entità, o, meglio, la differenza che le separava, che rendeva sempre più impossibile una comunicazione tra di loro, andava allargandosi (lunghetta come frase iniziale, vero?): la (nobiltà) colta e lʼincolto (popolo).
Quando studi la storia della lingua italiana (e non solo), studi anche una cosa chiamata diastratia. Di questa, studi nello specifico una relazione: quella tra lʼorigine sociale dei parlanti (ricchi o poveri, riassumendo) e il tipo di lingua che parlano. Come parla una persona ricca? E una povera? Le domande-parametro sono queste. E sono domande che – si studia – hanno ormai poco senso. O dovrebbero averne poco. Perché oramai – in squisita teoria, e in teoria non solo in teoria – chiunque può accedere ai mezzi necessari per parlare un italiano corretto (e comprenderlo).
Mentre leggi il Mittner e ti ricordi la diastratia, però, incappi nel video di un qualche politicante (credi) statunitense di parte trumpiana che, con un sorriso di denti bianchi, denuncia come la politica degli Stati Uniti, per gli ultimi tot decenni, sia stata portata avanti avendo come must quello di non “offendere i sentimenti” (delle donne, dei gay, dei negri, degli islamici, etc…) anziché quello di “dire la verità”.
Ho pensato, dopo aver visto quel video, che il presupposto è ben strano. Il presupposto è che fino allʼaltro ieri, per motivi a noi non ben noti, non si volesse conoscere la verità. Ma questo è un presupposto secondario del vero presupposto, ancor più gustoso: Basta voler conoscere la verità per conoscerla. Che è quello che farebbero i trumpiani, a detta di Mr. Denti Bianchi. Decidono di parlare di fatti – anziché tessere discorsoni che non “offendano nessuno” – e in automatico sono in grado di farlo, ossia in automatico accedono alla verità.
Fenomenale, vero?
Poi ho visto un altro video, in spagnolo, e quindi con una comprensione limitata dello stesso: quel che era chiaro è che cʼera una qualche manifestazione di piazza con presenti degli spagnoli (di Spagna? Può darsi) che inneggiavano a Franco tendendo il braccio a moʼ di saluto fascista mentre urlavano “Duce!”, il tutto seguito da volti ripresi mentre pregavano – a seguire un breve discorso che conteneva la parola “Islam”. I volti erano in media non-proprio-giovani. Il mio primo indecoroso pensiero è stato: “Speriamo muoiano in fretta, e questo con loro.” Poi mi sono permessa una dissertazione interiore più lunga: “Gente che non ha mai visto una guerra che inneggia a un neo-nazifascismo militante, non avendo quindi un cazzo in comune con quelli che hanno costituito i primi nazi-fascismi.” Non che le motivazioni degli originali nazi-fascisti fossero dʼoro e sapienza, intendiamoci: ma, a posteriori, permettono di collegare le cose. Qui di collegato cʼè un nazi-fascismo la cui estetica potrebbe essere stata rodata in sessioni di giochi di ruolo dal vivo e parchi a tema e uno spirito da crociata che probabilmente ai tempi delle crociate non è mai esistito, ma che presenzia ben preciso in tanta filmografia popolare.
E, con “popolare”, torniamo allʼinizio. A Mittner e ai suoi nobili prusso-austriaci di inizio Novecento che proprio non digerivano lʼavanzare cieco (e in ciò folle, o viceversa) delle masse incolte. Generalizzavano, i nobili, forse un poʼ spaventati come mʼimmagino – diversamente ma similmente – spaventati i bianchi pro-Apartheid prima del crollo del regime, asserragliati in casa. Così, ma ideologicamente. Come quella Storia di un tedesco di Haffner che viene venduta come libro partigiano di resistenza al nazismo, ma che è in fondo la storia di un vecchio spirito nobil-ricco che, del nazismo, ha criticato i tratti più anti-elitari. Insomma, dubito che oggi Haffner sarebbe un umanista dedito a campagne per i pari diritti di tutti. Era colto, e in quanto tale aveva un ampio bagaglio da cui attingere per riflettere, e questo non è poco. Non è poco per nulla. Non lo è soprattutto se lo si paragona a quellʼignoranza tuttʼaltro che nuova, ma mai come oggi manifesta, che impera su quegli stessi social che se ne lamentano.
O sui giornali.
E qui torniamo a Trump.
A come, nel post-elezioni, ci si sia resi conto che chi aveva in mano i media non aveva la più pallida idea di quel che stava accadendo. E non lʼaveva perché non dialoga(va) con lʼelettorato di Trump. E la domanda, veramente, la vera domanda, è:
Siamo arrivati al punto in cui non cʼè più dialogo?
In cui si stanno creando due culture, una che si identifica con i poveri e che identifica lʼaltra con i ricchi (ma non è così semplice, ricordate la diastratia), lʼaltra che non conosce, semmai disconosce, la prima? E quante persone stanno in una credendo di stare nellʼaltra? E quante usano entrambe per poter sminuire coralmente nemici privati?
Ho (ri)cominciato a riflettere sulla trasversalità dei criteri dopo aver sentito una mia conoscenza “bianca, europea, di sicuro non povera, formata” fare generalizzazioni che in quanto a metodologia avrebbero potuto essere smontate da un bambino di sei anni (o da uno nella sacra fase dei “perché”, comunque, che non ricordo quando sia, ma che purtroppo finisce per molte persone, che poi rivestono uscite dʼodio con le vesti di un ragionamento – ma solo le vesti), generalizzazioni su (stupitevi) “gli islamici”, e questo un paio di settimane dopo aver avuto a cena un amico musulmano con cui ho parlato di gender e reificazioni e dellʼuso che si fa delle ideologie (religiose o meno) per sfruttare la paura e lʼodio. Ho pensato – nel modo di pensare meno decoroso – che lei era, tra i due, la retrograda pericolosa. Lei lo è, punto, in questa situazione. Eʼ il partire dal presupposto che basti una religione – o un qualsiasi altro criterio usato come descrittore affidabile a sproposito – a farci capire “chi usa di più il cervello” (permettetemi il lusso di un riassunto) il problema. Cioè, uno dei problemi. Assieme alla tendenza, che sempre più noto (e spero sia unʼillusione collettiva), di concepire solo due posizioni contrapposte: o con me o contro di me.
E io, intanto, leggo il Mittner. E, per quanto io abbia vissuto una lunga fase della mia adolescenza (e non solo) autosegregata in una torre dʼavorio, sentendomi (auto-appioppandomi, insomma) il ruolo della nobile di inizio Novecento di turno (Ah, beate-beote masse!), non lo sono. E, non essendolo, vedo quella posizione dallʼesterno. Vedo la mancanza di mezzi di quella crema culturale, la sua incapacità di comprendere i moti popolari (e borghesi). Vedo lʼassurdità – da una parte della barricata e dallʼaltra.
Ma, intanto, osservo il mondo attorno a me configurarsi in opposti, dar loro caratteristiche, e vedo – dallʼesterno – alcune mie caratteristiche individuali diventare parametri generali. Una volta mi auto-prendevo in giro dandomi della radical chic. Quel che intendevo fare, in realtà, e con non poca arroganza, era tacciare una certa maggioranza di esserlo: semplicemente, comodamente seduti a un computer, non sempre ci si rende conto di quanto alcune proprie pretese siano lussi. Chi le riconosce come lussi, invece, tende a parlare di tale iniquità – e viene etichettato come radical chic. O veniva, perlomeno.
Dove sono finiti i radical chic?
Eʼ da tanto che non vedo questa parola usata (nellʼunico modo in cui veniva usata: con disprezzo). In che categoria è finita? I buonisti? I filo-islamici? I sostenitori più o meno consapevoli dellʼ“impero delle banche”? Non sto chiedendo, ovviamente, dove siano finiti realmente – io, ad esempio, sono qui – ma in quale categoria siano stati ricollocati. Da che parte della barricata? Ma, visto che ci siamo, chiediamoci anche dove siano finiti. Tutti dalla stessa parte? Quanti tra loro si sono risvegliati anti-qualcosa? Anti-complotti, anti-islamici?
(E non ho ancora capito se i complottisti siano anche anti-islamici, se le due categorie siano contrapposte, o se siano trasversali. Sto capendo ben poco in generale, a dirla tutta. Ad esempio, i fondamentalisti cristiani odiano più gli omosessuali/bisessuali o gli islamici? Il Family Day del futuro accoglierà gli islamici conservatori? E i cristiani anti-islamici si alleeranno con gli omosessuali? O alcuni islamici indecisi tra progressismo e conservatorismo, al pari di certi cristiani, accetteranno lʼomosessualità per parlare di pari diritti?)
Quel che odio di questa situazione è che mi fa venire una voglia pazzesca – che mi tenta dolcemente, o che peccato sarebbe? – di rintanarmi di nuovo nella torre dʼavorio. Non per blaterare da un podio, stavolta, ma per assaporare un poʼ di silenzio. Leggere parole di gente morta e ascoltare quelle dei vivi che mi scelgo. Facebook è troppo una bolgia. Scrivere lì per ragionare è ormai come entrare al bar di paese e buttare un argomento sul tavolo: la similitudine vale per quanto riguarda le aspettative che si possono avere. Con la differenza – minuscola o enorme – che il fantomatico bar di paese, più mito che realtà, è un luogo in cui si ritrova chi non ha avuto, nella vita, modo di diventare un sapiente (e perciò va al bar, magari dopo una giornata in fabbrica, preferibilmente in una fabbrica ferma alla rivoluzione industriale). Ma la diastratia, la ricordate? Lʼindignazione cocente che porta ad armarsi, il prendere posizione fin da subito con lʼodio che il fanatico matura solo negli anni, lo scrivere con il tono di chi, per bontà divina (o equipollente), con il proprio solo intuito ha una saggezza che schiaccia tutti i ragionamenti altrui, tutte queste cose, insomma, non vengono da persone che non hanno potuto né studiare né hanno potuto, né possono, accedere a fonti di cultura. Vengono da persone laureate – così come si possono contare i (grandi) numeri di chi, auspicandosi nuovi nazi-fascismi militanti, non solo non ha mai visto una guerra, ma probabilmente hanno il cuore che va a mille al primo rumore di notte in casa.
(E faccio male a chiamarli nazi-fascismi. Non lo sono, oggi, non lo possono essere. Qualsiasi cosa uscirà dallʼoggi sarà una cosa nuova, inedita, che in comune con il passato avrà la tendenza di rifarsi a mitici passati a moʼ di consolazione e per auto-legittimarsi.)
E io taccio, spaventata sia dallʼidea di essere coinvolta in una bolgia di recriminazioni travestite da opinioni ben sostanziate (ah, maledetto ipse dixit, nemico nei secoli dei secoli), sia da quella di fare io stessa quel che trovo aberrante. Taccio, e poi, ogni tanto, rigurgito.

Indefinibilità.

In questi giorni in cui studio e lavoro s’intersecano e confondono e sovrappongono, a tratti, mentre faccio uscire dalla mia bocca strutture appena apprese per riservarle a unə cliente particolarmente bendispostə, ogni tanto una canzone dai lamentosi toni slavi attraversa il mio spazio-tempo.
Vorrei dare nome a quello che, in questi mesi, con tanto piacere quanta frequenza mi trovo ad ascoltare. Sono note che salgono dalla strada nel finesettimana, incontro in metro nella forma di una persona che le suona di mercoledì (o lunedì o giovedì – non c’è norma, non c’è schema visibile), passano per il computer e io dico:
«Si fermi tutto! E questo cos’è?».
Ma, alla fine della giornata – e quella che segue, e poi ancora in quella successiva, quando ancora mi ritrovo tra le orecchie simili melodie – non so che cosa sia. Non so come chiamare questa tendenza musicale che, dopo essere stata ascoltata una volta, sembra ricomparire, apposta, a ogni angolo. Insisto con il definirla slava, pur sapendo che tale termine è tanto vasto quanto, quindi, in qualche modo offensivo, ma è d’altro canto l’unico appiglio che ho. Per il resto, le canzoni che mi trovo a sentire si presentano con volti diversi: nostalgici, a volte, o invece ridanciani e deridenti come se mi passassero, vivi e noncuranti all’idea della morte, davanti in quel momento.
E, mentre lascio che scandiscano l’ennesima ora, li collego – arbitrarietà per arbitrarietà – alle pagine del Mittner che mi accompagnano in questi giorni di studio e lavoro.
Mittner è quello che ha scritto una Storia della letteratura tedesca più che colossale – ma non per questo sommaria, anzi. Adoro Mittner, creatura di altri tempi eppure distante dai suoi coevi. Doveva essere all’avanguardia quando ha cominciato a scrivere saggi – con quel suo tono ancora accademico nella tenuta, ma ben più vasto e omnicomprensivo dello sguardo che s’immagina negli occhi di un topo da biblioteca. E poi l’ironia, sottile, che non sminuisce la profonda passione con cui passa in rassegna tutti gli autori germanofoni che riesce a ficcare in quelle pagine scritte fittamente, con note ancor più fitte. Vi concentro lo sguardo e tutta l’attenzione mentre in metro, seduta o in piedi, lo leggo. Per tragitti brevi o lunghi. La mattina o la sera. A volte, a letto, sotto le coperte.
Mittner sta fungendo da specchio in cui riconoscermi, in questi giorni in cui ho così poco tempo per stare interiormente con me stessa.
Mittner sta fungendo da filo rosso con cui ritrovare i discorsi che lascio in sospeso.
Questa musica indefinibile, ad esempio. O l’indefinibilità in generale.

Qualche giorno fa, in negozio, un italiano in visita all’amica, di provenienza italiana e ora vivente a Berlino, mi ha chiesto a mento sollevato:
«Sai dirmi perché Berlino piace tanto?»
Per la varietà, di persone e quindi stimoli – che s’incarna, detto in un modo che possa risultare forse più tangibilmente riconoscibile e comprensibile, nel fatto che ognunə può andare in giro come gli/le pare e nessunə per ciò lə guarderà non dico male, ma neanche stranitə. Anzi. Ciò arricchisce la città. La crea. La vivifica. Ci si sente parte attiva di un processo in eterno divenire.
Ma non sono riuscita ad arrivare a dire tanto – le parole non hanno fatto in tempo a essere messe nella giusta forma, nel giusto ordine, e d’altro canto l’italiano già mi stava chiedendo se tutto questo essere diversi dagli altri non sia un’altra moda in sé.
E io, davanti a quest’altra domanda a mento alzato in precoce vittoria, mi sono sdoppiata.
Una parte di me ha capito. Ha capito tutto. Ha capito il riferimento all’essere “diversi dagli altri”, lo ha concretizzato in volti e caratteri e tendenze, e ha anche capito il fastidio in reazione a ciò, e come questo si concretizzi in certe altre persone, che discorsi faccia loro costruire, quali argomentazioni, quali vicoli ciechi, quali strade aperte a futuri sviluppi.
Una parte di me, invece, si è trovata in mare aperto senza più ricordarsi come si nuotasse. O, meglio, a nuotare senza ricordarsi razionalmente come si nuotasse, o così ha pensato, non realizzando che non l’ha mai appreso razionalmente. Eppure sa nuotare. E stava nuotando anche in quel momento.
Detto in altre parole:
Non ricordo più molto bene a che serva domandarsi se essere diversi dagli altri sia una moda in sé. Lo è? Può darsi. Ma, se lo fosse, qui a Berlino – come moda che esiste per farsi notare – avrebbe fallito.
La varietà umana, qui, mi fa pensare a quella delle piante, dei fiori e degli animali che trovo nella strada parallela a quella in cui vivo. A volte ci passo nella speranza di vedere uno dei conigli che vi abitano fare quale saltello di fianco a me. Accade a volte, solo a volte, ma poco conta. Tutte le altre posso osservare corvi e uccelli volare da un ramo all’altro, e le diverse forme e grandezze dei rami, le bacche che vi crescono, o le foglie che li riempiono, e quelle che – cadute dagli alberi – sfumano il cemento con gradazioni di giallo, e i fiori sbocciati e quelli nascosti, e – insomma – i diversi modi in cui gli abitanti decidono di far crescere il pezzo di verde che c’è davanti a ogni casa.
Non c’è niente di particolarmente esotico – o strambo, strano, diverso – nei singoli elementi, sembra. Se c’è – e certamente c’è – partecipa assieme a tutti gli altri a creare uno specifico tipo di paesaggio. Ci sono flore e faune mediterranee, flore e faune tropicali, e le flore e le faune delle specifiche città. Quelle di Berlino sono un groviglio di elementi che, altrove, sarebbero strambi, strani, diversi. Qui sono… come dire?… qui sono, tutto qui. E il lato positivo è che, oltre a poter essere contemplati nel loro insieme, nella loro impressione generale, si fanno sminuzzare con piacere per livelli e livelli, come frattali.
È strana Berlino, con il suo convivere di niqab e neonazisti, rampanti capitalisti e promotori della sostenibilità. Ma poi, se si zooma, risultano strani anche i singoli elementi. Un raffinato braccialetto d’argento sul polso dell’uomo che come capigliatura ha un unico, piatto, lunghissimo dreadlock; un cappello a muso di panda sulla testa della donna in completo elegante. E, se si zooma ancora, la situazione non va che complicandosi. L’uomo potrebbe essere un intellettuale di destra, la donna volontaria in un’associazione per i rifugiati.
Quando si cerca di tornare indietro – alla visione d’insieme – se ne scopre la vanità. Si (ri)scopre quanto sia vano cercare un unico e omogeneo filo rosso che colleghi tutte le parti che compongono un individuo. Berlino aiuta, in questo. Aiuta offrendo abbinamenti tanto improponibile quanto frequenti che rendono inutili le classificazioni. Quella lì sembra una punk anni ’80 mescolata con una rastafariana, e quello un hipster mescolato a una drag-queen, ma quello che cosa è…?
Come si può essere diversi quando si è immersi in un mondo di diversi? Diversi rispetto a chi? E a che pro etichettarsi, quando le etichette non aiutano più a dividere in categorie, essendosi le categorie mescolate tra loro senza pudore?

Se il cliente in negozio mi ha fatto tali domande a mento alto, e con pregustata vittoria, è perché di Berlino si parla troppo. Di troppa poca Berlino, e di questa troppo, e nel modo peggiore – ossia quello che si crede migliore.
La Germania non è la nuova America. Pensavo di essere io quella che la serbava con troppo amore nel cuore, al punto d’idolatrarla, ma (per fortuna) mi sono sbagliata (o forse, vivendoci, ho avuto ben poco tempo per adorare l’idolo). Ho visto troppe persone parlarne male con la stessa disillusione e rabbia con cui si parla di unə ex, colpevole, fondamentalmente, di non aver retto alle aspettative dopo essere statə messə alla prova delle nostre necessità. Tanta acredine non può che venire da troppo cieco entusiasmo. Ho chiara e stridente in testa l’intonazione vittoriosa di chi, in un discorso, riesce finalmente ad agguantare un argomento che dimostra che la Germania non è perfetta, e lo usa come se tale imperfezione potesse frantumarla tutta.
La Germania non è il Paese dei Balocchi. Cioè, può esserlo. Per breve tempo vi tratterà con guanti bianchi e con mille riguardi. Questa sarà l’impressione, se verrete qui da un’Italia che, nella nostra testa, non vi tratta come dovrebbe. Di fatto la Germania vi starà semplicemente trattando come reputa chiunque dovrebbe essere trattato – quel chiunque che, di contro, dovrebbe agire in un certo modo. E quel modo non è usare la Germania come fino al giorno prima si è usata la mamma: per farsi mantenere e stirare le camicie – ché, finché si può… Ma sto già ricorrendo a facili cliché per appellarmi a quelli che dovrebbero essere (stati) i miei connazionali. Questa è la cosa peggiore, sapete? Vedere, qui, delle profezie che si autorealizzano. Stereotipi che si disegnano da soli. Italiani che, quasi si stessero dimenticando cosa erano (e probabilmente è proprio così), ricorrono ai cliché cotti e pronti per attaccarsi a una qualche vaga identità italiana. Ed è comprensibile il sentirsi venire meno quello che si era. Si cambia ambiente, si cambiano parametri. Ci si scinde un po’, a volte – una parte ricorda, l’altra no. Ma non è poi così male. E’ solo straniante. Ma in un modo interessante. Ma sono di parte.
Quel che mi affligge è più che altro la distanza che viene a porsi tra me e le persone, a me care, che continuano a crescere e svilupparsi in un contesto diverso. Diverse coordinate, diversi orizzonti, diversi modi di interpretare le cose e prospettarsele. E, soprattutto, l’inidentificabile – come queste melodie slave che tornano e ritornano a cadenzare le mie giornate, provenendo da non so dove e non so dove andando, e chissà quanto resteranno, e intanto le colgo e accorpo a me.

Non c’è meno inquietudine, qui, né maggior senso. Quello è il mondo, no? Che è fatto così ovunque, se è fatto così nella propria testa.
Ma da qui mi sembra di poterlo osservare meglio – mentre, nel frattempo, vivo come in un’isola che, pur essendo al centro dell’Europa, vive in sé. Attinge da tutto, si fa attraversare da tutto, e forse proprio per questo non riesce a farsi assillare da nessuna delle specificità che la circondano. Come fai a parlare, sia male o bene, dell’Altro, quando l’Altro – sia il cattolico, lo hipster, il neonazista, il musulmano, l’italiano, l’omosessuale, il cinese, il capitalista – non solo è ovunque attorno a te, ma è proprio davanti a te mentre ti vende quello che compri tutti i giorni? Alla fine si parla di tutti e tutto come se nella stessa stanza ci fosse l’intero mondo ad ascoltare – perché non sai quale parte di quel mondo, in quel momento, effettivamente ci sia. E’ una specie di panopticon culturale che, anziché indurre al silenzio, spinge a trovare nuovi modi di parlare l’uno dell’altro senza né includere né escludere. Un po’ per buona creanza – questa è l’impressione iniziale – un po’ per convivenza – questo diventa il fatto poi – un po’ perché poi diventa insensato fare altrimenti – e questa è, credo, mera abitudine, per quanto sia un’abitudine da me adorata.

Ho pensato, oggi, a tutte le volte che ho sentito fare battute su omosessuali e islamici (argomentoni del passato e del presente), a cui ho reagito seriamente, per poi sentirmi dire che “era solo una battuta”. Ho pensato, con uno strano cuor leggero, che la risposta che segue è semplice, semplicissima, così semplice da essere diventata un tabù. Suona volgare come un “E tu sei unə coglionə – ma è una battuta, eh”. Perché se una battuta si può fare su una persona, allora si può fare su tutte. Ma non funziona così, vero? Le battute su certe categorie funzionano quando le categorie non sono presenti o, peggio, quando la loro presenza è una minoranza che non detiene granché potere.
(Ehy, vale anche per tutte le battute sugli uomini e sulle donne, su quelli del Nord e del Centro e del Sud, sugli avvocati e sui salumieri – su chiunque, ma proprio chiunque, perché quel che conta è il tono, e l’aspettarsi o il non aspettarsi che la categoria menzionata abbia il diritto e il potere di farti ingoiare quella battuta. E’ il segreto per cui non è la parola usata che conta, ma il presupposto e l’intenzione.)
Mi sento in un’isola perché qui, in una città con neonazisti e donne in niqab, alla fine della giornata sono meno stressata da questi immensi dettagli di quanto lo sarei – e sono stata – altrove. E’ un piccolo delizioso paradosso che mi tengo stretto stretto al petto, cullandolo e coccolandolo. Non rende la vita meno atroce né meno folle – è un paradosso, d’altro canto – ma mi fa sentire centrata. Più pronta a più cose, in un certo senso. Esiste una parola per questo?

(Ricordatevi sempre che questa è la mia Berlino, che coesiste assieme a tante altre, che probabilmente ne sono l’esatto opposto – ci sono Berlino fatte di faide irrisolvibili, Berlino tutta-natura e Berlino solo-cemento; Berlino in cui tutti si omologano e altre in cui nessuno parla veramente con gli altri; etc etc…)

L’insostenibile insolubilità dell’essere

Questa dovrebbe essere la mia settimana libera. (Si chiamano “vacanze autunnali”, qui.)
La frase qui sopra, invece, è un esempio dell’importanza dell’uso del condizionale.

In queste giornate umide dal cielo pressoché inesistente è un bene avere impegni.
L’autunno, qui a Berlino, somiglia a una stanza ammobiliata al minimo indispensabile: è il momento di decidere, finalmente, con che colori completarla, quali cuscini e lampade comprare, con quali immagini tappezzare le alte pareti bianche. In parte è così letteralmente – si veda, a proposito, la nuova federa del cuscino nel suo disturbante verde.
So che non dovrei optare per il verde, in questo periodo dell’anno e nel nord della Germania. La luce fa tutto, sapete? Guardate i paesaggi veneziani e quelli nordici nei quadri più schifosamente famosi che conoscete (e non solo i paesaggi) e giocate a Trova le differenze!. La luce italiana, dorata, qui non esiste. E questo conta, per i colori. I verdi, qui, risplendono nelle loro tonalità più acute, non disturbati dal giallo del tramonto (e del crepuscolo, magnifico crepuscolo). Certi verdi, qui, risplendono nella e della loro potenziale follia. Sanno di libertà e delirio, sono vibranti e disturbanti, vivi e minacciosi. Li adoro.
Per controbilanciare, forse, mi sono rifatta rossa – di un rosso acceso, che probabilmente in Italia sparerebbe come un semaforo, ma qui – senza la dorata luce di cui sopra – vira verso il cupo. Mi mancava, il rosso. Mi mancava quel suo effetto, che non ricordavo, di dare una diversa tonalità alla mia pelle. Non so dirvi quale. Non so se ora sia più calda o più fredda, più rosa o più verde, non so. Ma ci piace.

Con la chioma fresca di henné sono andata, ieri, prima al lavoro e poi ho fatto Feierabend – parola che, ovviamente, non posso tradurre letteralmente. È quel momento di festa – ma festa in piccolo, stacco, riposo, in un bar o equipollenti davanti a una birra o equipollenti – che ha luogo dopo la fine del lavoro, prima di tornare a casa, ma senza essere un aperitivo. E aggiungiamo: era Feierabend solo per me, nel mio grato cuoricino. Ufficialmente era una birra di commiato in onore di un’amica americana che va a vivere in Spagna per qualche mese, in sua e dei suoi amici compagnia.
Qui potrei aprire un’altra enorme parentesi sull’atmosfera dei ritrovi di expats a Berlino. E, anche qui, come traduco expats? “Gente che vive all’estero”, nella sua quasi pedante neutralità, potrebbe rendere la base dell’idea. Non la rende né “stranieri” né “migranti”. Forse, in questa precisa contemporaneità, e precisamente a Berlino, parlare di “espatriati” potrebbe far intuire quella malinconica atmosfera da ritrovo di auto-esiliati ideologici/artistici. Ma “esiliati” è una parola già abbondantemente riempita dai rifugiati presenti in città, e, allora, che dire…?
… Dicevo dell’atmosfera di expats, e probabilmente solo di certi expats, a Berlino, che vorrei tanto descrivere, ma che forse riuscirò solo a tratteggiare rubando immagini altrui. Mi ricorda a tratti quelle riunioni di personaggi, in certi romanzi, che in comune hanno solo il venire da un altro luogo e l’avere una trama da seguire tutti assieme. Unə fa il dottore o la dottoressa, l’altrə il musicista; unə è ricca, l’altrə tira avanti; se fossero venutə dallo stesso luogo, e li fossero rimastə, probabilmente non si sarebbero mai trovatə allo stesso tavolo. Ma già ho l’impressione di aver ristretto troppo il campo, di aver tagliato qualcuno fuori. Di aver osato troppo.
Ieri sera la birra è stata bevuta al fu preferito bar del fu David Bowie, il Neues Ufer, che ha – mantenuta o meno che sia – un’atmosfera accogliente tutta urbana. Non è intima come una Kneipe, né roboante come un luogo di ritrovo in. Se ne sta lì, con la sua devozione al defunto, che guarda tutti dalle pareti senza fretta né obiettivi, accordata all’ottobre che attende gli avventori in strada, un po’ freddo e un po’ silenzioso, ma non ancora colmato né dai mercatini di Natale né dalla neve.
Mi ricorda la severità di certe scuole di inizio Novecento, i passi che rimbombano lungo i corridoi dalle pareti vertiginose, i vetri delle alte pareti che quasi vibrano, e a tenere compagnia – in quei pochi ma pregni metri percorsi – solo la promessa che chi ha ideato quel luogo l’ha fatto con un rigore capace di essere, all’occorrenza, un premuroso guardiano.
Sembra, insomma, di stare in una grande collettiva attesa.

Gli anglofoni mi mancavano più di quanto pensassi.
Da persona cresciuta a fiction americana, posso aspettarmi di accogliere con piacere una serata in compagnia di americani. Poi mi sento un po’ in difetto perché, in fondo, lì non ci sono mai stata, e di consapevolezza ho solo quella di avere in testa ben più stereotipi di quanti qualche chiacchierata possa smaltire. Ma, così intrappolata tra cliché, facciamo un’altra precisazione, che tutta ai cliché è dovuta: ci sono bidimensionalità e bidimensionalità. Non so se e quanto negli Stati Uniti sia diffuso il prototipo antropologico che poi fa sì che i loro cittadini siano rappresentati sul beota-andante (pensiero che la stessa fiction americana in parte fomenta – l’altro ieri ho visto Suicide Squad, notando atterrita l’esigenza di ripetere e ripetere e ripetere anche le più basilari informazioni di modo che anche lə spettatore/trice più demente possa non perdere il filo dell’esilissimo discorso), e probabilmente non lo saprò mai: ci si attira quel che si cerca, e io mi cerco con piacere, a quanto pare, spiriti che cercano la lucidità, il distacco necessario a una critica (e a un’autocritica) – e, se capita, un po’ di ironia, sia in formato sarcasmo o meno.
Posso aspettarmi, dicevo, di accogliere con piacere una serata in compagnia di americani, ma non mi aspettavo che la Britishness mi mancasse.
Come faccio, ora, a parlarvi di questo senza scadere nello stereotipo? Perché non posso, veramente non posso, parlavi di cosa e come siano gli americani, o gli inglesi – o i tedeschi, gli italiani, i francesi, i cinesi (poi, con i cinesi, si sfiora lo scoppiare a ridere), e via discorrendo. Non saprei veramente come farlo. L’unica cosa che posso fare è piombare di nuovo sui dettagli – quei dettagli che a volte attraversano persone che in comune hanno una vaga origine, a volte no. È il modo di parlare, di ammorbidire o rafforzare una frase, di interrompere o ascoltare, di esprimere fastidio o non esprimerlo, di imbastire un discorso o smontarlo. O di annuire, semplicemente, o non farlo. Di esprimere apprezzamento, o non farlo.
Non mi sentirete spesso elogiare i britannici (e ancor più, o meno, gli inglesi). Anzi, a dirla tutta, quando assisto agli effetti che la fascinazione britannica scatena mi metto un po’ in disparte, in silenzio, con disincanto (o qualcosa che forse vuole esserlo in reazione) e forse un po’ di saccenza. Il fatto – brutto o bello che sia – è che ho risposte pronte a smontare tutti i miti che vanno per la maggiore, che per la maggior parte sono figli di cliché. Il tè, la compostezza, la politeness, l’ironia a volto serio, l’eleganza, le scarpe. Non perché nel mio cuoricino io non serbi il ricordo di deliziosi momenti santificati da una tazza di tè, del sentirmi a mio agio davanti a un sorriso appena accennato, dell’apprezzare una cortesia così pervasiva da far dimenticare che è un prodotto culturale, e via discorrendo. Ricordo tutto – e di tutto sono spesso pronta a portare l’altro lato della medaglia. È che questo tutto è così spesso così tanto semplificato – questo tutto che, diciamocelo, messo assieme ricorda in modo inquietante un inglese pre-decolonizzazione – da risultare quasi offensivo, e non perché alcuni miei ricordi non rientrerebbero perfettamente, visti dall’esterno, in tale stereotipo, ma proprio perché vi rientrerebbero, e rientrandovi ne verrebbero impoveriti, bidimensionalizzati, la tridimensionalità recisa alla base e schiacciata per meglio conformarsi a una semplificazione.
Sono riluttante, quindi, all’idea di descrivere quel che ieri sera ho ritrovato con una nostalgia che non sapevo di avere. Temo finisca nel calderone, e che fomenti generalizzazione in stadio già abbastanza avanzato. E mi domando, mentre scrivo ciò, se io non stia intuendo il motivo – tutto gretto – per cui alcune persone tanto tengono al riservare a loro stesse i ricordi. Ora, dato che odio riservare cose per me stessa e basta, mi dico che avrò solo bisogno di tempo: il tempo di imparare a parlare anche di questo senza rischiare di renderlo potenzialmente facilmente classificabile nel “già (mal) conosciuto”, di imparare a parlare del nuovo rendendolo riconoscibile senza abusare del vecchio.
Intanto, accumulo.

ə

Penso di non aver mai scritto così tanto in tedesco in vita mia.
E, mentre cerco di farmi diventar naturali i vari “con ciò”, “dei quali”, “al fine di” (nonché tutte le varianti tedesche dei “ci” e “ne” italiani che da soli tutto riassumono), mi domando come io abbia fatto anni fa a scrivere saggi brevi in tedesco sulla letteratura e storia tedesche. Che acrobazie ho fatto, non tanto per scrivere correttamente quanto per, semplicemente, scrivere qualcosa di sensato?
Probabilmente la risposta fa rima con “esigenza” e “pietà”.

Nel giro di due settimane si è passati dalla tarda estate all’inverno inoltrato.
Fa freddo, quel freddo insistente tipico dei primi giorni di gelo, come se l’intera città – mio corpo incluso – dovesse ancora abituarsi a resistergli. Il freddo è scivolato sotto le porte, tra le finestre, attraverso i vestiti, e si è conquistato pavimenti, pareti, lembi di pelle. Sono giornate da passare in casa sepolti da una coperta, un tè al fianco (il mio è in preparazione) e all’altro il lasciarsi andare al sonno di chi è stanco di combattere il calo delle temperature.

Settimana prossima finisco il corso di tedesco B2.2 e a fine mese inizio il C1.1.
(Per chi si fosse persə* le puntate precedenti, i livelli sono: A1 – A2 – B1 – B2 – C1 – C2, a loro volta suddivisi in A1.1 – A1.2 – A2.1 – A2.2 – etc… L’A1.1 è «Io chiama Tizia e viene da Italia», più o meno. Il C2 è una strana creatura tutta immaginaria che parla l’italiano di Umberto Eco ma senza essere madrelingua.)
Ovviamente, come ho appena cercato di far intuire, i livelli del Quadro Europeo sono tutt’altro che obiettivi descrittori. Mentre frequenterò il C1.1 avrò ben poco della fluenza e del vocabolario che le descrizioni del livello suggeriscono, ma è già un bel raggiungimento. Anzi, è soprattutto una curiosità: non ho mai studiato l’inglese fino a questo livello, lasciando che fosse la “vita vera” (enfasi qui, grazie) a insegnarmi gli ultimi livelli. (C’è poi da dire che i livelli di complessità dell’inglese più complesso effettivamente usato non sfiorano neanche quelli più che raggiunti e superati dal tedesco – o dall’italiano – di pari livello. Anche perché altrimenti «Adieu, lingua di scambio internazionale!») Ma abbandoniamo il Quadro Europeo e la sua incoerente astrattezza e andiamo in direzione di un astratto più concreto:
Sto leggendo in tedesco.
Dopo essermi avventurata per le pagine di Der Vorleser, già letto in italiano (e film visto in italiano e inglese) e suggerito appositamente per il livello B2, ho fatto il salto dal trampolino: sto per finire un romanzo in tedesco che ho iniziato a leggere dal nulla, nella piena e totale e disorientante ignoranza. E – l’ho detto? – lo sto per finire. E questo è – indovinate? – rassicurante. E sapete perché?
Perché adesso posso entrare in una libreria di Berlino ed effettivamente scegliermi un libro. (Magari dalla prosa meno complessa di quello che mi attende sul comodino, definito da un madrelingua “poco comprensibile anche per unə tedescə”.) Perché sempre più potrò, sepolta da una coperta e con una tazza di tè al fianco, rilassarmi leggendo libri che posso trovare in qualsiasi libreria. Perché, insomma, costruisco passo passo la mia Gemütlichkeit a Berlino.

* Vi piace lo schwa ( ə ) usato per creare il genere neutro?
Facciamo partire le scommesse su quantə grammar nazi che sbagliano l’uso di “alcunə” e non conoscono la differenza tra “egli/lui/esso” lo troveranno insopportabile? Per chi fosse curiosə, invece, ecco la pronuncia. Trovate lo schwa in inglese, tedesco, francese e – per i conservatori dell’identità linguistica nazionale – in napoletano e piemontese. Adotta anche tu lə “ə”! (Ok, qui ho esagerato di proposito.)

Lingue e culture (più o meno personali).

Alla fine finisce sempre più o meno così: alla scrivania, in un tramonto che già sa di crepuscolo, gli occhi secchi che sbattono dalla stanchezza e il chiedersi se esagerare con l’ennesimo caffè.

Oggi in classe si è parlato di come l’inglese sia entrato, neanche tanto di soppiatto, nel tedesco.
Conoscete l’effetto: viene preso per il culo nella parlata milanese. Immagino che l’acredine che scatena sia dovuta al fatto che l’inglesismo viene abusato per una questione di status. Lo capisco: l’inglesismo è il nuovo latinismo. Eppure…
Oggi in classe si è parlato di come sia importante tutelare le lingue dall’influenza dell’inglese. E lo capisco, quando si parla di un mero impoverimento. Ma quando e come è un impoverimento? Non sarebbe, in teoria, un arricchimento, l’avere a disposizione un maggior numero di termini differentemente connotati?
Oggi in classe si è arrivati a parlare di come l’inglese sia superusato come seconda lingua. Si è arrivati a parlarne male, generalmente male, nel senso di: in termini generici, senza che io potessi più capire che si stesse dicendo.
Si è parlato di tradurre qualsiasi parola, anziché importarla come prestito, e al contempo dell’unicità delle lingue e quindi dell’intraducibilità di alcune parole. Nello stesso discorso.
E io mi sono persa.

Che problemi abbiamo con le lingue?
La mia, di lingua, ha dalla sua quell’unicità che si rivendica per tutte le lingue madri. Solo che la mia, di lingua, è una mescolanza di altre lingue. Parlo, ascolto, leggo, scrivo, penso e sogno in italiano e in inglese. Un po’ anche in tedesco, a volte, ed è solo questione di tempo: ancora qualche forse mese, forse anno, e andrà a far compagnia all’italiano e all’inglese. Chissà a quale sfera semantica, o a quale agglomerato di sensazioni, si uncinerà.
Al momento – in questo periodo di tartassante studio della lingua tedesca – tutto si mescola.
Gültig, ad esempio, in questi giorni ha bellamente soppiantato valid. Smetterà, lo so, ma chissà poi a che cosa toccherà. Per non parlare poi di quel breve verso gutturale che ho cominciato a fare anziché alzare le spalle e dire «Boh!». (Devo insegnarlo, il «Boh!», spalle comprese, come insegnante di italiano.) Non se sia questo a essere il miglior esempio del livello di pervasività che il tedesco sta avendo sulle altre lingue che parlo, o la mia sintassi italiana e inglese, che stanno andando a puttane (ossia stanno seguendo quella tedesca come due deliziose fan). Si assesteranno anche queste cose in un nuovo equilibrio, ma non so che ne verrà poi.
Dopo l’inglese, ad esempio, il mio italiano ha acquisito la forma stare facendo, che sfocia in stare essendo (con il verbo essere si nota di più che con altri verbi, ma la pervasività con cui ha sostituito altre strutture italiane c’è ed è generale), stare venendo fatto, etc… Parliamo poi dell’essere supposti essere, che ha compensato alla mancanza, in italiano, di una differenza tra must-müssen/should-sollen. Non c’è purtroppo una coppia di verbi italiani che io possa contrapporre per rendere questa sfumatura, e così sono caduta sull’essere supposti essere in alcune frasi.
Non riesco a vedere questa come una perdita. L’italiano, come ogni lingua, ha carenze (l’inglese e il tedesco mancano della varietà di tempi verbali al passato dell’italiano; l’italiano della varietà di tempi verbali al futuro dell’inglese; al tedesco manca il gerundio; all’italiano due modi diversi di usare l’impersonale passivo), e a queste carenze il mio cervello sopperisce pescando dalle lingue che conosce. Non sentirei il bisogno di sopperirvi, probabilmente, se non concepissi quello che all’italiano manca. E’ proprio questa mancata percezione della ripartizione del mondo tipica di una lingua straniera X a renderne veramente difficile lo studio. Il resto è ripetizione in un contesto.
Ora, intendiamoci: non scriverò un articolo accademico abusando di stare essendo ed essere supposti essere. Ma perché dovrebbe essermi più difficile dell’evitare di scriverlo scrivendovi c’ha o gli sta bene? Abbiamo (o, perlomeno, necessitiamo d’avere, se vogliamo fare certe cose) padronanza di diversi tipi di sottolinguaggi, e la capacità (o, perlomeno, necessitiamo d’averla, se vogliamo fare certe cose) di selezionare quelli adatti al contesto. Sappiamo modulare il lessico, la sintassi, persino la struttura del testo. Perché dovrebbe essere diverso quando si parla di parlare più lingue?
Le parole italiane che più s’indeboliranno nella mia testa saranno probabilmente cose come contrassegno, ossia quelle parole che non userò più in italiano, e per cui userò un equivalente in tedesco. Ma ci sono poi intere strutture mentali nella mia testa che l’italiano l’hanno visto di sfuggita: non saprei, ad esempio, scrivere un articolo tecnico nell’ambito delle relazioni internazionali, avendo appreso il discorso – e quindi le parole, ma anche il reasoning – direttamente in inglese. (In realtà ormai non saprei neanche scriverlo in inglese, non parlandone da eoni.) L’immaginario fantasy è stato scolpito nella mia testolina di bambina giocando a videogames in inglese. Ditemi mischia e penserò a una cosa: ma melee è altro. Include mischia e ressa, e… ha qualcosa di diverso, come enjoy non è godersi che non è genießen. E tutto questo fa letteralmente parte della mia esperienza. Fattuale.
Se dovessi lamentarmi di come la mia cultura personale va disperdendosi, non più rappresentata dalla lingua, avrei perso in partenza. Forse per questo non capisco i discorsi sul purismo del linguaggio: unificare la mia parlata spontanea a una sola lingua, fosse pure l’italiano, significherebbe rinunciare a parti di me. E’ così che si sente chi, cresciuto in un (teorico) monolinguismo, si trova davanti alla propria lingua modificata? (Come se le lingue, storicamente, non cambiassero in continuazione.)
(E non parliamo di come io abbia appreso molte varianti colloquiali dell’italiano verso i quindici anni, studiandole a tavolino nei discorsi e cercando di capire quando e come applicarle.)

Alla fine finisce sempre più o meno così: alla scrivania, a crespuscolo ormai spento, ad ascoltare musica blaterando di questioni astratte che il mio cervello non ha ancora riorganizzato.
Vorrei parlarvi di come in questi giorni io stia studiando la forma dadurch, dass per mostrarvi quali salti tripli la testa debba fare in certi casi per ri-pensare il pensabile ed esprimerlo, ma per parlarvene dovrei condividere con voi buona parte della grammatica tedesca che la precede. It sucks, oder…? Che per condividere si debba aver condiviso.

La finestra sul cortile.

Il vecchio che vive nel palazzo davanti al nostro deve essere stato un mago. O così diciamo.
Esce sul balcone perlopiù per dare da mangiare agli uccelli. Posa il cibo e poi, furtivamente ma con grazia, rientra. Subito dopo i volatili arrivano a frotte. Si cibano, si attardano, volano via. Lui esce di nuovo e pulisce, con quei gesti da mago da cabaret che sono il suo marchio di fabbrica. Se lo incontrassi per strada e avesse le braccia legate non lo riconoscerei. Ma lo riconoscerei a cento metri di distanza, se sollevasse una mano.
Lo vedo al mattino, a volte, mentre sciacquo la tazza del caffè. A volte esce sul balcone e basta, senza apparente ragione, se non per dispensare la dose quotidiana di mani svolazzanti che disegnano opere d’arte nell’aria. A volte penso sia stato un direttore d’orchestra. O forse solo un musicista che, invecchiando, ha passato alle mani la musicalità che prima comandava le sole dita, o la sola voce, o magari solo le orecchie.
Vado adesso alla finestra e lo vedo comparire dietro il vetro. Fa uno sbrigativo gesto, come se stesse dicendo a un uccello: «Su, muoviti!» E poi scompare. Forse non parla con gli uccelli, ma con tutti noi qui fuori. Per questo ce lo immaginiamo cresciuto nella DDR, e immaginiamo quest’enorme fraintendimento: noi che guardiamo lui credendo gesticoli nella nostra direzione; lui che gesticola perché pensa di essere osservato. Chi lo sa? Qui tutte le ipotesi sono parimenti credibili: il mago, il direttore d’orchestra, il musicista, il paranoico. Direi anche «Il pazzo e basta.», ma qui non ci sono pazzi e basta. Si è sempre anche qualcos’altro.
Torno alla finestra mentre lavo quattro pesche tabacchiere (le adoro, e qui abbondano) e lui non c’è. Peccato. Ma ci sarà dopo.

Nell’ultimo anno in Italia uscivo sul balcone per fumare. A volte, sul balcone a sinistra al piano superiore, sedeva un vecchio coreano, lui e la sua bellissima pianta la cui specie ignoro. E lui mi ignorava, perlopiù, se non per qualche raro sorriso lieve nei rari momenti in cui distoglieva lo sguardo dall’orizzonte.
Il vecchio è morto, lasciando la moglie a vivere sola nell’appartamento. Durante le pause-sigaretta ci salutavamo: un lieve cenno della mano accompagnato da un sorriso, poco più di quello che accadeva tra me e il marito.

Queste persone non sapevano, non sanno, e forse non sapranno mai, quanto siano importanti per la mia vita quotidiana. Lo sono più di quelle con cui scambio parole – dal proprietario della panetteria sottocasa con cui ci si scambiano convenevoli di cuore all’insegnante di tedesco che mi fornisce chiarificazioni fondamentali. La loro importanza risiede proprio nell’anonimato. Siamo una persona chiunque l’una per l’altra, e in questo essere chiunque condividiamo l’intimità più insospettabile: quella della quotidianità. Quando poi viene apertamente riconosciuta con un sorriso e un saluto, a manifestarsi è il presupposto del convivere civile in senso positivo: ci si può aiutare a vicenda a far iniziare bene la giornata anche non conoscendosi. Basta un sorriso, o un cenno della mano.
Non so e probabilmente non saprò mai a chi siano rivolti gli aggraziati gesti del vecchio tedesco. Se stesso, gli uccelli, noi, il mondo. Ma, intanto, ce ne fa dono. E io ogni tanto torno alla finestra nella speranza di vedergli disegnare nell’aria una grazia che in un’altra vita sarebbe acclamata da una folla – e forse lo è anche in questa, solo che non lo so.