standy-by

La libertà del pagliaccio

34 secondi di chiamata.
Potrei raggruppare tutte le minime variazioni di numero – mai più di 90 secondi – e farci qualcosa. Che cosa non so. Un’installazione, probabilmente. Quando devi riassumere passato, presente e futuro in meno di 90 secondi. E finisce che si dicono cose abbastanza banali, in fondo. Sì, va tutto bene. Sì, tranquillo/a. Le parole sono parole sono parole. 34 secondi di chiamata servono solo a sentire la voce altrui e capire da questa come vanno le cose.
Poi ti senti stupida, mentre non riesci a non cercare una spiegazione dettagliata alla durata delle telefonate. Ma non vi tedierò con le mie vane speculazioni a riguardo. Non serve neanche aspettare di poterle guardare a posteriori per trovarle tragicomiche – tragicomiche come ogni necessità umana che cocciuta tenta e ritenta nonostante le circostanze siano sfavorevoli. E poi, in fondo, non sono che questo: speculazioni. Ben lontane dal fulcro della faccenda. Non risolutive. Distrazioni per una mente logico-deduttiva. Vanitas.
Potrei invece trovarmi a tediarvi con altre correlate faccende.
Perché scrivere a coevi e posteri è più facile che scrivere direttamente a T. Per entrambi, in un certo senso. Per queste cortesie da ufficiali da operetta tedesca che ci riserviamo, e che adoro, quanto adoro, ma fanno sì che la comunicazione verbale possa solo limitatamente riportare i pensieri. E poi ci troviamo entrambi a pensare: Sarò riuscita/o a trasmerle/gli tutto? Abbiamo la scioltezza nelle relazioni di due quindicenni. Festeggiamo anche questo, che tanto mi fa sorridere.
E, poi, scrivere a coevi e posteri è più facile e basta, soprattutto per mantenere quello stand-by che tutto e tutti dovrebbe salvare. Prendilo e mettilo in uno scrigno e di ciò parla: di quel che ti ha lasciato. Di quella cosa che non è lui ma quel che lui ti ha dato, e che avrai sempre e comunque. Contorte strategie per vivere nel presente.
Vivere una persona come se fosse il gatto di Schrödinger. Se ti chiama, significa che è vivo. Che cazzo te ne frega, a quel punto, di dire cose innovative per 34 secondi? Poi la chiamata finisce e il gatto torna nella scatola.
Lo stand-by è la migliore soluzione che io riesca a concepire. Ed è una soluzione vecchia. Una vita di rapporti a distanza mi ha insegnato a vivere ogni giorno per quel che – per chi – ho in quel momento. Perché la presenza dell’assenza sia una celebrazione, non un patimento. E perché ci sono vite che sono palline impazzite e precarie e sono bellissime così.
Serbo nel cuore F, quella stessa F che ha candidamente ammesso di non potermi tenere nella propria vita perché sono una pallina impazzita e non può controllarmi. Per motivi completamente diversi da quelli di T, ma che hanno conseguenze simili.
La libertà che celebro e mi auspico è quella di essere se stessi; solo secondariamente si tramuta – sull’onda di una sincerità che, come si riserva a se stessi, si riserva al prossimo – in un potrei sparire da un momento all’altro. Non è che la mera conseguenza della celebrazione dell’individualità – mia, e altrui. Mai vorrei che qualcuno rinunciasse a una parte di sé per me: rinuncerebbe così a una parte che amo. Amo individui forti in sé, e che grazie a quell’essere in sé sanno risplendere e ispirarmi. Ciao, Nietzsche. Perciò T, pallina impazzita e precaria che voglio nella mia vita, necessita dello stand-by: per godere di lui quando c’è, per non struggermi quando non c’è. Non voglio che sia uno dei miei motivi di sofferenza, ma di gioia. E anche perciò è un favore che faccio a entrambi, in questo caso: saprà di non avermi fatto soffrire per ciò che è. Concetto difficile da spiegare a chi non tende a prendersi il peso delle proprie scelte, anche e soprattutto quando sa che sono scelte da individuo centrato in se stesso. La chiamo consapevolezza. E le do un enorme peso.
Festeggio questa vita che mi riserva sorprese inaspettate celebrando la vita di T – quella parte, nella scatola, che compartecipa a creare ciò che in lui amo.
(Vedete? Scrivere a coevi e posteri è più facile. Posso anche lasciarmi andare con le scelte di termini. Poetizzare. Strafare. La presenza di un pubblico attenua la gravità delle mie parole. Le relativizza. Non le rende impugnabili. Beata libertà del pagliaccio.)
C’è una casa da pulire, delle lezioni da preparare, una traduzione da finire. Libri da inserire nella libreria trovando loro un posto – ri-strutturare la vita ogni tot, ritualizzando tali momenti per dare quel lieve-profondo senso alla quotidianità. Qualcosa di piccolo, qualcosa di grande. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo. Perché la distanza tra immanente e trascendente, tra presente e assente, non sia troppo significativa.